“Piccoli Semi di Speranza” per il popolo palestinese
Una favola illustrata ispirata alla vita di tanti bambini palestinesi che cercano di sopravvivere in una terra massacrata e che vive il genocidio del loro popolo. Ne abbiamo parlato con Alice Ungaro, autrice del libro.
Se c’è qualcosa, o qualcuno, che può smuovere l’anima, immaginiamo subito il viso di una bambina o di un bambino sorridente, o, ancor di più, quando soffre. E nel mondo, ancora troppe bambine e bambini patiscono traumi inenarrabili, se solo pensiamo che attualmente, ci sono circa 60 conflitti in corso.
Quello che succede però, da decenni, in Palestina, non la si può chiamare guerra, o conflitto, appunto: la popolazione di quel territorio viene da decenni di soprusi, umiliazioni, colonizzazioni, uccisioni, comprese quelle di migliaia di bambine e bambini, ragazze e ragazzi la cui unica speranza è sopravvivere a un genocidio.
Non potevo (il lettore o la lettrice mi perdonerà l’utilizzo della prima persona) allora non fare una conversazione con Alice Ungaro, autrice di “Little Seeds of Hope – Piccoli Semi di Speranza”, favola illustrata in inglese e italiano ispirata alla vita di tanti bambini palestinesi che da anni sopravvivono, chi riesce, senza scuola, senza una casa, con il rumore della guerra intorno.
Ho chiesto ad Alice Ungaro di raccontarmi la sua visione del massacro quotidiano del popolo palestinese, che ha fatto germogliare “Little Seeds of Hope – Piccoli Semi di Speranza” anche attraverso la terribile esperienza di Mohammed, della sua famiglia, dei suoi fratelli minori. Perché né Mohammed, né la sua famiglia, quel che ne rimane in vita, né altre persone devono sentirsi sole, come dimostrato anche dalla meravigliosa iniziativa della Global Sumud Flotilla solo qualche settimana fa.
Cosa ti si è smosso “dentro” quando hai iniziato a lavorare a “Little Seeds of Hope – Piccoli Semi di Speranza”?
Mi si è smosso tutto!
Il libro è nato, prima di tutto, come uno strumento concreto per raccogliere fondi per Mohammed e la sua famiglia. Ma l’intuizione vera è arrivata quando mi ha raccontato che, tra le tante privazioni, i suoi fratellini soffrono l’assenza di istruzione: non vanno a scuola da tre anni, alcuni di loro non ci sono mai andati.Ho sentito la necessità di dare forma a qualcosa che potesse attraversare la distanza e trasformare l’impotenza in azione. Little Seeds of Hope è nato dal bisogno di rispondere alla violenza con la tenerezza, di restituire dignità e voce a chi viene ridotto a numero.
Scrivere quelle pagine è stato come piantare semi in una terra ferita, sperando che — anche solo in chi le legge — potessero germogliare empatia e consapevolezza.
Dentro di me è cambiato il senso stesso di cosa significa “aiutare”: non più un gesto verticale, ma un legame orizzontale, tra esseri umani che si riconoscono nel dolore e nella speranza dell’altro.
Per tante, troppe persone, sembra che tutto sia iniziato dopo il 7 ottobre 2023, ma in realtà sono decenni che il popolo palestinese soffre un’occupazione illegale da parte di Israele e piange, ormai, centinaia di migliaia di vittime. Mohammed ti ha mai raccontato come vive questa modalità di sminuire la tragedia palestinese?
Sì, molte volte.
È una ferita che torna in ogni conversazione, anche quando non la nomina. Mohammed non parla quasi mai di sé in termini politici, ma ogni suo racconto quotidiano — le file per il pane, la paura per i fratelli, la perdita della casa — è un atto politico in sé.
L’altro giorno mi ha mostrato orgoglioso una foto con suo nonno, un uomo di 97 anni che era presente durante la Nakba (l’esodo forzato del 1948) e che si è sempre ostinatamente rifiutato di abbandonare la propria terra. Non c’è niente di più politico!
Quando il mondo parla della Palestina come di un “conflitto recente”, per lui è come se cancellasse la sua stessa infanzia. Mi ha detto una volta: “È come se la nostra memoria non contasse. Come se la nostra vita iniziasse solo quando qualcuno decide di accorgersi di noi.”Credo che una parte del mio lavoro, anche con il libro, sia proprio opporsi a questa cancellazione: dare continuità alla memoria, renderla viva e condivisa.
Oggi, che sto dando vita all’Associazione di Promozione Sociale Seeds of Hope Network APS, questo è ancora più evidente: vogliamo allargare i confini mentali che ci siamo autoimposti, educare i nostri figli alla compassione e alla conoscenza del diverso da sé.
Un tempo queste tematiche erano scontate — ricorderete tutti l’immagine dei bambini di ogni etnia che si tengono per mano intorno al mondo — eppure oggi sembra che le stiamo dimenticando. E io, nel mio piccolo, non posso permetterlo.
A settembre fa hai avuto modo di parlare del tuo libro, un racconto per bambini illustrato, alla Città dell’Altra Economia di Roma durante il Falastin Festival, Festival della Cultura Palestinese in Italia: cosa hai visto negli occhi e nelle espressioni di chi ti ascoltava?
Ho visto commozione, ma anche riconoscimento.
Molti mi hanno fermato dopo la presentazione per ringraziarmi di aver portato una testimonianza viva, concreta. In un mondo dove le ideologie prevaricano tutto, riportare l’attenzione sulla vita reale — sul dolore ma anche sulla speranza — è qualcosa di profondissimo.
C’era un silenzio carico, un ascolto vero. Nei volti vedevo il desiderio di fare qualcosa, di non restare spettatori. Condividevano con me la stessa rabbia e lo stesso senso di impotenza che, nel mio caso, si è trasformato in azione.
Per me è stato un momento di verità: capire che l’arte — anche un piccolo libro illustrato — può davvero aprire un varco, rendere possibile un incontro.
E in quel momento ho sentito che Little Seeds of Hope non era più solo il mio libro, ma di tutti quelli che scelgono di non voltarsi dall’altra parte.
È diventato un piccolo seme collettivo, piantato nel cuore di chi sceglie di vedere.
Mi raccontava Alice, solo qualche giorno fa, che Mohammed sogna di tornare all’università: “Dopo due anni in cui tutto è andato distrutto la sua iscrizione è ancora attiva ma bloccata per motivi economici. Vogliamo raccogliere fondi necessari per riattivarla. Ogni contributo è una porta aperta sul futuro, un atto di resistenza.”
Articolo a cura di Graziano Rossi
