Gite scolastiche in crisi, tra prof. che rinunciano e costi esorbitanti
Le gite scolastiche non sono più così popolari. Non ci sono professori disponibili, i costi sono altissimi e le classi non le “meritano”.
Dieci euro infilati velocemente nel portafoglio dai genitori e qualche moneta “per il gelato” data dalla nonna la sera prima della partenza. Questo era più o meno il denaro necessario per pagarsi gli “extra” di una gita scolastica nei primi anni 2000. Oggi, le cose sono molto cambiate.
Skuola.net, il portale che supporta studenti e studentesse (ma anche docenti) nei compiti e nelle verifiche con riassunti ed esercizi sugli argomenti scolastici, ha pubblicato i risultati dell’annuale Osservatorio sulle gite scolastiche. Hanno intervistato tremila frequentanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado in merito alla gita dell’anno in corso.
Gite scolastiche annullate dalle scuole
Il dato più significativo è che circa la metà di loro non parteciperà all’uscita didattica di più giorni. Per quasi il 30% dei casi questa scelta non dipende dalla volontà del singolo studente, bensì dalla scuola. Dell’altra metà, l’11% era ancora in attesa di conferma dell’uscita. Essendo il sondaggio stato effettuato a metà marzo, la probabilità che ormai fosse troppo tardi è alta.
Ma come mai le scuole sono più restie a organizzare le uscite didattiche? Il primo motivo emerso dal sondaggio è l’indisponibilità di professori e professoresse ad accompagnare le classi, come hanno dichiarato quattro persone su dieci. Il 18% di loro, invece, ha affermato che, a causa dei costi ormai proibitivi del pernottamento e dei trasporti, le scuole rinunciano a priori all’organizzazione della gita, per paura delle basse adesioni da parte delle famiglie una volta che si è già a buon punto con l’organizzazione. In effetti, circa una persona su dieci ha detto che l’uscita è stata annullata proprio per il mancato raggiungimento del numero minimo di partecipanti. Sulla questione delle scelte individuali delle famiglie torneremo dopo aver riflettuto sul primo di questi due dati.
Prof. che rinunciano alle gite scolastiche: perché?
Con un’analisi un po’ superficiale, si potrebbe accusare gli/le insegnanti che decidono di non andare in gita di mancare il loro obiettivo educativo, non avendo interesse nel creare rapporti con alunni e alunne al di fuori dell’aula scolastica, dove possono contare sulla protezione della cattedra e la loro posizione di potere. Al di là, però, di questi casi singoli e poco virtuosi, che pure ci sono, la causa è anche strutturale. Infatti, se da un lato il problema del sovraffollamento delle aule e, quindi, della eccessiva responsabilità del corpo docente su una grande quantità di persone sta rientrando “grazie” al decremento demografico, dall’altro resta seria la problematica del precariato.
Gli/le insegnanti precari/e in Italia sono 250mila su un totale di 943mila, più o meno uno su quattro. Hanno in media 45 anni e la loro vita professionale e personale dipende dall’attesa del contratto successivo, talvolta in un luogo molto lontano dal precedente. Non possono auspicare a un aumento di stipendio per anzianità, che rimarrà quindi sempre al minimo. Ogni classe in cui i/le prof. insegneranno è diversa e ci vuole molto lavoro per creare fiducia e rispetto tra loro e gli/le alunni/e. Una volta instaurato questo rapporto, le uscite didattiche sono molto più facili e più piacevoli. Ma alcuni/e docenti precari/e non hanno interesse, tempo ed energie per creare quel legame in poco tempo, con classi che probabilmente non vedranno più e/o che non conoscono bene, magari non avendo ancora messo a punto il metodo educativo in aula, che serve per la maggior parte del tempo.
La responsabilità dei prof nelle gite scolastiche
Vi è poi la questione delle responsabilità. Secondo l’art. 2047 del Codice Civile, integrato dall’art. 61 della legge n. 312 dell’11 luglio 1980, il personale docente che accompagna le classi in gita, oltre a vigilare sull’incolumità di studenti e studentesse, deve anche controllare che non vengano danneggiati beni e strutture come musei, siti archeologici, alberghi, ristoranti e mezzi di trasporto.
Qualora non possa dimostrare di aver fatto il possibile per evitarlo, il/la docente potrebbe risponderne civilmente, pagando dei risarcimenti. È comprensibile quindi che alcuni/e di loro preferiscano non rischiare di veder volatilizzarsi i propri pochi risparmi.
La scuola deve aggiornarsi
Infine, da ex docente, posso dire che i programmi scolastici sono molto fitti e, tra uscite didattiche, eventuali assenze, vacanze e altri imprevisti, qualche consiglio di classe potrebbe far sì che la gita salti e guadagnare tempo per concludere spiegazioni e interrogazioni.
Una delle prime soluzioni a questa crisi potrebbe risiedere proprio nell’adattare progressivamente i rigidi programmi scolastici al mondo che sta cambiando. Un mondo che è estremamente interconnesso, digitalizzato, con molte opportunità di spostamento e molte iniziative (spettacoli teatrali, incontri con professionisti, visite a luoghi culturali, festeggiamenti a scuola per le ricorrenze) richiede per forza un po’ di spazio in più rispetto a solo vent’anni fa. I programmi, però, sono rimasti pressoché invariati.
Molti/e prof., di loro iniziativa, sacrificano una parte del programma per lasciare spazio anche ad altre esperienze, come la gita. Questi cambiamenti sono pertanto già in corso e devono solo essere istituzionalizzati, per non far sì che questi tagli al programma siano condotti in modo arbitrario e, quindi, dannoso.
Programmi adattati, non ridotti
Adattare i programmi, però, non significa che debbano essere soggetti a ogni cambiamento del mondo. La scuola deve continuare ad essere un luogo esterno al caos della vita, dal quale la si può osservare e comprendere. Il tempo per esperire il mondo c’è, e arriverà dopo. Per questo la scuola non deve diventare una copia brutta ed eticamente ambigua del mondo del lavoro. Deve invece fornire strumenti e valori universali, come lo spirito critico per comprendere cosa è reale e cosa è manipolazione, o il modo di relazionarsi alle altre soggettività diverse da noi, fino alle cose più concrete come il modo migliore per imparare un’altra lingua o il modo in cui si conduce un esperimento scientifico. Ma, per continuare ad essere un punto di riferimento nella società, una colonna che sorregge e tiene insieme il mondo, quella colonna ha bisogno di manutenzione.
I programmi scolastici, quindi, devono essere finalizzati a questi scopi, non ridursi a uno studio fine a se stesso, per vedere qual è lo studente più bravo e diligente. per non parlare dei valori trasmessi, che devono aggiornarsi alle nuove sensibilità sociali. Lo studio del mesozoico, per quanto di grande importanza, non deve essere un accanimento sulla lunga ed estenuante memorizzazione dei nomi dei dinosauri. Deve servire a comprendere il processo evolutivo delle specie, la piccolezza dell’essere umano e quindi, per esempio, la gravità e l’insensatezza del disastro ecologico che abbiamo causato. Lo studio delle guerre passate non deve essere finalizzato all’imparare a memoria centinaia di nomi e date di persone relativamente importanti per l’epoca. Deve invece servire a capire quelle dinamiche che gli esseri umani, imperterriti, ripetono senza remore e forse, in futuro, prevenirle.
Non bisogna vietare l’uso dei computer o di Chatgpt in quanto strumenti che non fanno fare abbastanza “fatica”. La scrittura a mano, siamo d’accordo, può avere un grande potere didattico, ma nel 2025 bisogna studiare e capire il tema della IA insieme ad alunni e alunne, così che imparino ad utilizzare questo strumento, magari anche a non utilizzarlo, ma spiegando loro il motivo, anche grazie a quei famosi valori. Imparare a capire le cose, quindi, non a performare, dovrebbe essere ciò che rende la scuola un luogo considerato di alto valore sociale.
Poca disciplina? Niente gita scolastica
Come insegna il metodo scientifico, poi, si potrebbero mette in atto altri tentativi, per vedere se funzionano. Per esempio, alzando gli stipendi di professori e professoresse e dare loro più stabilità all’inizio del loro incarico, vista l’importanza sociale del loro lavoro. Questa idea, quindi, passerebbe a livello capillare, dai genitori, agli alunni, ai docenti stessi che troverebbero così maggiore motivazione.
La scuola dovrebbe poi vietare alcuni tipi di punizioni. Infatti dal sondaggio è emerso come nel 14% dei casi il motivo dell’annullamento delle gite è stata la condotta della classe, che non si “meritava” di andare in gita.
Al di là del fatto che stiamo parlando di gruppi numerosi di adolescenti e preadolescenti, da cui ci si può aspettare qualche comportamento fuori dalle righe, che deve, sia chiaro, essere rimproverato, vietare le gite scolastiche come punizione è segno di una concezione vecchia e arrugginita della scuola. Finché sono gli stessi insegnanti a vedere le uscite didattiche come un momento staccato dalle attività scolastiche e di svago, come appunto delle “gite”, nemmeno per gli/le alunni/e sarà un momento educativo, neanche a livello inconscio. E i/le docenti continueranno ad annullare le gite scolastiche senza remore. Ve le immaginate le scuole che annullano le lezioni come “punizione”? Farebbe sorridere.
Gite scolastiche: un’occasione preziosa
L’ uscita didattica, certo, è e deve restare un’esperienza diversa, con meno schemi ed imposizioni rispetto alle lezioni frontali. Ma deve restare un’occasione preziosa di crescita e di insegnamento e gli alunni ne devono avere la percezione. Altrimenti, dal canto loro, lo svago lo trovano stando a casa, magari uscendo con amici diversi e più affezionati dalle persone che si sono trovate in classe. dal sondaggio emerge come, del 7% di coloro che non vanno in gita per loro scelta, la metà di loro non ha voglia di stare fuori di casa per più giorni con compagni/e e docenti. Sicuramente non si può attribuire tutta la responsabilità alla scuola. Ma sondare le ragioni delle singole famiglie o condurre un’analisi antropologica sul cambiamento del modo di svagarsi delle nuove generazioni richiederebbe un altro lungo articolo.
Le gite scolastiche costano troppo
Sono tante anche le persone che rinunciano alle uscite per ragioni economiche. La spesa media per un viaggio è di 424 euro, cifra che è aumentata del 5% in un solo anno. Per non parlare degli extra, come alcuni pasti, merende, momenti di svago o souvenir. In questo periodo in cui l’inflazione cresce a vista d’occhio, la spesa dell’intera uscita potrebbe essere molto più alta. Per questo motivo, la maggioranza delle uscite avviene in Italia. Firenze è al primo posto, seguita da Napoli e Palermo. Roma e Milano invece sono all’ultimo posto sia per le difficoltà organizzative, specialmente a Roma, visto che il 2025 è l’anno del Giubileo, ma anche per i prezzi proibitivi di alloggi, cibo e musei.
Il 24% degli studenti dice che la scuola ha scelto località di minor rilevanza storico-culturale, come mare o montagna, puntando quindi più sull’educazione ambientale, sportiva o relazionale. La durata del viaggio è ridotta al minimo: massimo tre giorni per il 40% degli studenti. Il viaggio avviene per più della metà dei casi in pullman e solo il 13% sceglie il treno, un mezzo poco non conveniente per rapporto qualità/velocità/prezzo. Sono raddoppiate le partenze in crociera, anche se restano un numero irrisorio (2%). Il vantaggio sarebbe il poter unire in un unico pacchetto il pernottamento, pasti e visite guidate.
Un’epoca diversa
Una situazione diversa, quindi, dagli anni duemila e dalle epoche precedenti. In certi casi si tratta di un cambio positivo, per esempio per la maggiore tutela legale di strutture e persone, l’aumento delle esperienze da fare, dei luoghi da visitare e dei mezzi di trasporto per arrivarci. Dall’altro, però, la costante inflazione, le crisi economiche, il precariato del personale docente, l’arretratezza culturale delle istituzioni scolastiche si stanno rivelando fatidici per i passi avanti che, non senza fatica, sono stati fatti dalla scuola italiana.
Articolo a cura di Iris Andreoni
Immagine di copertina via Flickr – Creative Commons