Un osservatorio internazionale sulla Cisgiordania: il nuovo progetto di Mediterranea
Al via il nuovo progetto di “Mediterranea with Palestine”, un osservatorio internazionale per documentare le violenze e i soprusi dei coloni israeliani sul popolo palestinese nei territori occupati della Cisgiordania.
Il progetto di Mediterranea
Non esistono profughi di serie a e di serie b. Per questo, la Onlus Mediterranea Saving Humans cerca di ampliare il proprio raggio di azione. Nel 2024 è iniziato il progetto “Mediterranea with Palestine” in Cisgiordania con lo scopo di supportare le persone palestinesi espropriate delle loro terre. Mediterranea, inoltre, monitorerà gli abusi e i soprusi da parte dei coloni israeliani con la collaborazione del movimento palestinese di resistenza nonviolenta Youth of Sumud e di Operazione Colomba, la cui area di azione è Masafer Yatta e in particolare il villaggio di At-Tuwani.
Nel gennaio 2025 è iniziata una seconda fase del progetto di Mediterranea: un osservatorio internazionale per monitorare gli espropri di abitazioni e terre e le violenze. Il frutto di questo lavoro sarà un report semestrale che verrà diffuso in tutto il mondo, al fine di avere un riscontro nella politica internazionale e nell’opinione pubblica.
Uno degli ultimi giorni di marzo 2025 l’associazione ha postato su instagram un video in cui un gruppo di coloni armati attaccano il villaggio di Jinba. Hanno ferito cinque persone e ventidue sono state arrestate dall’esercito. Quindici sono state rilasciate la sera stessa, sette sono rimaste in detenzione. Pochi giorni dopo un raid dell’esercito ha colpito Jinba, distruggendo edifici (tra cui la scuola), auto e altre proprietà palestinesi.
L’occupazione illegale della Cisgiordania
Queste terre sono prese di mira da più di cinquant’anni dai coloni israeliani, i quali le occupano con i loro insediamenti illegali e con il supporto dello stato di Israele, che fornisce loro armi e protezione. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia, gli insediamenti nei territori occupati devono essere sgomberati in quanto illegali per il diritto internazionale.
Invece, gli abitanti storici di queste terre, che da generazioni vivono in Cisgiordania, vengono sfrattati quotidianamente dalle loro case, distrutte da un giorno all’altro, senza preavviso. Lo stato israeliano giustifica questo scempio con la necessità, da parte di Israele, di costruire campi di addestramento militare o di dover usufruire delle risorse. Di fatto, però, a guidarli è la loro ferma convinzione di essere i legittimi proprietari di quelle terre e di essere un popolo “umanamente” superiore.
Ai coloni non basta che la Cisgiordania sia già un’area completamente controllata da Israele, a cui i/le palestinesi devono chiedere il permesso per costruire case e che ha in pugno i rubinetti energetici di tutte le abitazioni. La volontà dei coloni sembra essere quella di estirpare la popolazione nativa, come confermano le continue, insensate, violenze fisiche e psicologiche verso di loro.
Una giustizia arbitraria
Il 27 agosto 2024 un gruppo di coloni provenienti dall’insediamento di Efrat si sono scagliati contro il villaggio palestinese di Wadi Rahal. Durante l’operazione hanno ucciso Khalil Zayadah, 41 anni, e ferito altri tre uomini. All’arrivo dell’ambulanza che avrebbe potuto soccorrere Zayadah, l’esercito, che fino a quel momento aveva osservato la scena senza intervenire, ha impedito per venti minuti il passaggio del mezzo di soccorso. Nessun responsabile è stato arrestato.
Anche per la giustizia, infatti, ci sono due pesi e due misure. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani Hamoked, al 1° luglio 2024 nelle prigioni israeliane erano rinchiusi 3.379 persone in detenzione amministrativa, ovvero senza processo. Questo stato detentivo può durare mesi o anni e i testimoni affermano di aver vissuto in situazioni disumane, subendo ogni tipo di tortura.
Per quanto riguarda gli espropri, da inizio anno, nella Cisgiordania occupata, 1.299 edifici palestinesi sono stati demoliti. Nel villaggio di Um al-Khair, l’esercito ha distrutto le tende dove la popolazione si rifugiava. Demolire le abitazioni significa lasciare famiglie intere senza letti, servizi igienici, cucina, riscaldamento, mobili dove tenere le proprie cose. Queste persone sono quindi costrette a spostarsi nelle città, sotto l’occhio ancora più vigile dello stato di Israele.

La demolizione di una casa in un villaggio di At-Tuwani, nella zona di Masafer Yatta, in Cisgiordania. Foto di Mediterranea.
La pulizia etnica del popolo palestinese
Oltre a negare ai/alle palestinesi la possibilità di vivere serenamente il proprio presente, sradicare forzatamente queste persone dalla terra natia è un modo per cancellare la loro identità, formatasi anche grazie alle loro origini e al comune passato. E per cancellare il loro futuro: pensare alla propria carriera professionale in un luogo chiuso, in condizioni precarie, dove la propria vita è costantemente minacciata, è praticamente impossibile.
Come si vede nel documentario No Other Land, vincitore del premio oscar 2025 come miglior documentario, il regista palestinese Base Adra non riusciva ad immaginarsi una grande carriera come regista, giornalista o avvocato, almeno non senza il suo amico israeliano Yuval Abraham, una presenza fondamentale per la realizzazione e la diffusione del documentario.
Nonostante il successo del film, però, le violenze continuano. Come ci ha rivelato un’operatrice di Mediterranea in un’intervista telefonica, anche i coloni sembrano aver visto il documentario. Hanno però cercato di ribaltare le parti, sostenendo di essere loro ad essere espropriati dalle loro legittime terre in Cisgiordania e di essere minacciati costantemente dal terrorismo palestinese.
Mediterranea, invece, è lì per sostenere il contrario, con prove tangibili dei costanti soprusi verso la popolazione palestinese, dimostrando come il numero così alto di violenze permetta di parlare di vera e propria pulizia etnica. Le testimonianze di osservatori internazionali possono essere molto potenti, poiché funzionano da deterrente e sensibilizzano l’opinione pubblica sulle ingiustizie.
L’osservatorio di Mediterranea in Cisgiordania è ancora più urgente
L’operatrice di Mediterranea afferma che l’esigenza di documentare i fatti è diventata più urgente dopo due eventi fondamentali del nuovo decennio. Il primo è la pandemia di Covid, che ha visto chiudersi gli occhi del mondo sulla Palestina, sia per l’assenza fisica di attivisti e attiviste, sia perché tutti e tutte noi eravamo concentrati/e su altro. In più, dopo il 7 ottobre, la situazione è definitivamente degenerata. L’evento ha esacerbato l’idea dei coloni e del governo israeliano di doversi salvaguardare da terroristi e potenziali terroristi, cioè bambini e bambine, attraverso il controllo, le violenze e le intimidazioni delle persone palestinesi.
Il Governo israeliano, subito dopo la fatidica data, ha messo in atto un’operazione militare nel nord della Cisgiordania. L’operazione è durata più di 10 giorni e che ha colpito soprattutto le città di Jenin, Nablus e Tulkarem, causando decine di morti e centinaia di feriti e arresti arbitrari. Qualcosa è cambiato anche da un punto di vista giuridico. Infatti, sono stati trasferiti molti poteri giuridici nelle mani dell’amministrazione civile nei Territori Occupati.
L’osservatorio di Mediterranea in Cisgiordania ostacolato
È aumentato anche l’ostruzionismo verso gli attivisti e le attiviste internazionali. Il 9 agosto scorso un colono israeliano ha sparato contro un attivista statunitense colpendolo alla gamba. Stava partecipando ad una manifestazione pacifica contro l’Occupazione presso Beitia, vicino a Nablus. L’attivista aveva preso parte alla campagna Faz3a – Defend Palestine, che ha l’obiettivo di coordinare e diffondere l’azione di interposizione nonviolenta di attivisti e attiviste in tutta la Cisgiordania. Il 6 settembre, durante una manifestazione pacifica nel villaggio di Beita, Aysenur Ezgi Eyzi, attivista 27enne turco-statunitense, è stata uccisa, colpita alla testa da un cecchino israeliano.
Anche l’attivista di Mediterranea riporta crescenti difficoltà nell’ottenere i visti: “Alcuni/e nostri/e colleghi e colleghe hanno ricevuto de visti più corti e in generale non si riesce ad avere un visto velocemente”. E continua: “Nonostante noi cerchiamo di non sostituire il popolo palestinese nella loro lotta, non sono mancati dei confronti verbalmente animati con alcuni coloni. Ci accusavano di odiare Israele e tutto il popolo ebraico e di sostenere i terroristi. Le nostre risposte sono sempre molto pacate o nette. Sicuramente, però, non c’è un dialogo o la volontà di venirsi incontro”. Nonostante questi ostacoli, il progetto prosegue e il report dovrebbe uscire nell’estate di quest’anno.
Articolo a cura di Iris Andreoni