Ungheria e UE: scontro sui diritti civili e l’ombra dell’articolo 7

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Durante l’ultima riunione del Consiglio Affari generali UE, 20 Stati membri hanno firmato una dichiarazione di condanna contro le leggi repressive e antidemocratiche verso alcune minoranze e la comunità LGBTQIA+. Per i firmatari si tratterebbe di una violazione dei valori fondanti dell’Unione per cui si invoca la sospensione del diritto di voto e di veto per l’Ungheria. Una richiesta grave ma non è la prima volta. L’Italia non firma.

Spesso ci si chiede di cosa sia fatta l’Europa unita. Di leggi, certo, di rapporti commerciali, di barriere nazionali aperte. Ma anche e soprattutto di Stati che si riconoscono in un sistema di valori condivisi. Chiedendo di entrare nell’Unione Europea, uno Stato accetta di limitare un po’ della propria sovranità in nome di questi valori che sono per lo più norme etiche, morali, umane. Sono vincoli che non ci dicono di cosa è fatta l’Europa, ma di che pasta è fatta. Su questo punto, i rapporti tra Ungheria e UE non sono mai stati idilliaci.

Sin dal suo ingresso, nel 2004, l’Ungheria ha spesso avuto posizioni non perfettamente in linea con lo spirito comunitario europeo – tanto da farci domandare se mai ne avesse avuto uno. Il dubbio si è fatto via via più persistente dal 2010 ad oggi, periodo in cui la carica di Primo ministro è stata occupata senza soluzione di continuità da Viktor Orbán. La sua politica conservatrice e sovranista, spesso al limite della legittimità, ha fatto storcere la bocca all’opinione pubblica internazionale e agli stessi vertici dell’Unione, ma, a parte qualche richiamo formale, contro il suo governo non si sono mai presi seri provvedimenti. La misura, oggi, sembra però essere colma.

Il Pride vietato, la bandiera dell’articolo 2

Il 27 maggio 2025, durante i lavori del Consiglio Affari generali UE, le delegazioni di 20 Stati membri hanno firmato una dichiarazione in cui si condanna il governo Orbán. Al centro del dibattito una serie di leggi discriminatorie, in particolare contro la comunità LGBTQIA+ – ma rivolte anche ad altre minoranze etnico-religiose e a movimenti politici di opposizione. Queste leggi sono culminate, lo scorso marzo, con il divieto di svolgere il Pride – inizialmente previsto il 1° giugno.

L’applicazione di queste leggi – imposta con metodi repressivi e lesivi dei diritti umani – per i firmatari del documento contro Orbán è una chiara violazione dell’articolo 2 del Trattato di Lisbona, che vincola gli Stati membri al “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”.

Come provvedimento contro le misure approvate in Ungheria, i 20 Paesi chiedono all’Unione europea l’applicazione dell’articolo 7 dello stesso Trattato – che prevede, una volta accertata la violazione di uno Stato membro dei valori dell’articolo 2, la sospensione del diritto di voto del suo rappresentante. Un provvedimento molto importante, mai applicato prima. In alcuni ambienti viene chiamato “ordinanza nucleare”, per sottolineare il fatto che è una misura da adottare in ultimissima istanza. Ciò dà l’idea di quanto il rischio di una deriva antidemocratica dell’Ungheria sia reale. Il fatto che l’articolo 7 non sia mai stato richiamato prima, tuttavia, si deve anche alla sua difficilissima applicazione.

L’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea

L’applicazione dell’articolo 7 è frutto di una serie di passaggi che rischiano di fermarsi ad ogni step. Prima di tutto, bisogna accertare la violazione dell’articolo 2 da parte di uno Stato membro e la mozione deve essere approvata dal Parlamento europeo. Questa fase è molto delicata e richiede tempo. Come si legge dal rapporto dell’ultima riunione del Consiglio Affari generali, quella del 27 maggio è stata l’ottava audizione nell’ambito della procedura. Inoltre, affinché l’iter proceda è necessaria l’approvazione dei 4/5 degli Stati membri – cioè 22. E questa è già una bell’impasse in cui l’Italia potrebbe giocare un ruolo da protagonista.

Gli Stati firmatari attualmente sono 20 su 26 – l’Ungheria in quanto parte in causa è automaticamente esclusa dal voto. Non hanno aderito al documento Polonia, Slovacchia, Bulgaria, Croazia e Italia. Non stupisce la mancata firma della Slovacchia: il governo del Primo ministro Robert Fico ha condiviso molto spesso le posizioni di Orbán su diversi temi. Discorso simile, ma con molti distinguo, per Bulgaria e Croazia. La Romania è appena uscita da una feroce campagna elettorale per le presidenziali ed è comprensibile che non voglia alimentare il focolaio interno con un ulteriore dibattito che risulterebbe molto divisivo al suo interno, data la presenza di una forte minoranza ungherese nel Paese. La Polonia, di turno alla Presidenza UE, non firma questo tipo di documenti per prassi – ma potrebbe firmare quello previsto dallo step successivo, che consente al Parlamento europeo di formalizzare l’avvio della procedura.

Il ruolo dell’Italia

Cosa potrebbe significare in questa fase la mancata firma dell’Italia, l’unica tra i Paesi fondatori? Che molto probabilmente tutto si risolverà in un nulla di fatto, come già accadde nel 2018 sempre con l’Ungheria come parte in causa. Allora la procedura si interruppe proprio a questo punto, per il mancato raggiungimento del quorum necessario. In ogni caso, per arrivare alla totale applicazione dell’articolo 7, servirebbe nell’ultima fase un voto unanime del Consiglio Europeo. Cosa che oggi sembra un’utopia.

Bisogna invece riflettere su cosa potrebbe significare una firma, oggi, dell’Italia. Potrebbe essere un fortissimo segnale a Orbán. Tra le leggi che preoccupano di più l’Europa, infatti, c’è quella sulla cosiddetta “trasparenza della vita pubblica”, prossimamente al voto al Parlamento ungherese. Ispirata a quella voluta da Putin in Russia, questa legge metterebbe di fatto al bando le organizzazioni, i movimenti, i partiti considerati pericolosi per la sovranità nazionale. Siamo pronti ad avere in casa questa svolta autocratica?

Articolo a cura di Andrea Pezzullo

Immagine in evidenza di Jan Budomo via Unsplash

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