USA-Cuba, inizia il raffreddamento?
Momento cruciale nei rapporti tra i due Paesi: dopo gli incidenti occorsi ai diplomatici statunitensi, Trump riduce al minimo la presenza nell’isola
Si torna indietro di 50 anni. L‘amministrazione <strong>Trump</strong> fa un ulteriore passo indietro rispetto a quanto voluto da Barack Obama e continua ad inasprire i rapporti con Cuba. A poco più di 2 anni dalla riapertura delle rispettive ambasciate, infatti, la scorsa settimana gli USA hanno annunciato di ridurre del 60% la presenza dei propri diplomatici a L’Avana ed hanno espulso 15 rappresentanti cubani da Washington. Stop anche all’emissione di visti per gli Stati Uniti e, parallelamente, vengono scoraggiati i cittadini statunitensi verso viaggi nell’isola caraibica per “ragioni di sicurezza”.
Il pretesto? L’incapacità del governo di Castro di andare a fondo e risolvere la questione di quello che è stato definito un “attacco acustico”. Lo scorso inverno diversi diplomatici statunitensi e canadesi accusarono malesseri neurologici come nausea, vertigini, cefalee e perdita dell’udito, riportando anche danni gravi e permanenti. Alcuni di loro hanno affermato di aver udito dei ronzii durante la notte, nelle loro proprie abitazioni messe a disposizione da Cuba.
All’epoca scattarono immediatamente le indagini da parte del governo locale, di quello statunitense e di quello canadese. In tutti questi mesi non sono risultate evidenze particolari rispetto all’origine di emissioni ad infra ed ultrasuoni, utilizzate secondo l’accusa degli Stati Uniti come armi acustiche. Una delle prime ipotesi avanzate era stata quella di un attacco sul territorio cubano da parte di Paesi tradizionalmente ostili agli USA – come l’Iran, la Corea del Nord o la Russia.
Già in Agosto erano stati allontanati due membri della delegazione cubana per il ripetersi degli episodi nella tarda primavera. “Prendiamo questa decisione – ha spiegato il Segretario di Stato, Rex Tillerson – per l’incapacità di Cuba di andare a fondo e risolvere la questione. Non crediamo assolutamente – ha tenuto a sottolineare – che ci sia una responsabilità o complicità da parte loro in quanto avvenuto, ma dobbiamo rilevare che non siano stati all’altezza della situazione”. La versione ufficiale degli Stati Uniti lamenta l’incapacità di Cuba di proteggere i propri delegati – così come stabilito dalla conferenza di Vienna del 1961.
Il governo cubano ha espresso dissenso e preoccupazione per una decisione unilaterale che lascia trapelare la volontà di frenare lo storico processo di distensione tra i due Paesi. Il Ministro degli Esteri, Bruno Rodríguez Parrilla, ha definito l’evento come “Una decisione assolutamente politica voluta da quanti hanno interesse nell’evitare un avvicinamento epocale tra noi e gli Stati Uniti”. Rigidità soprattutto per l’espulsione dei propri delegati: “Un atto inaccettabile ed ingiustificato”. Del resto, a Cuba hanno sempre sottolineato come sia stato impedito ai medici messi a disposizione dal governo di visitare e verificare lo stato di salute delle vittime.
A Cuba è arrivato sostegno non soltanto dai partner storici, come la Bolivia di Morales ed il Venezuela di Maduro, ma anche dagli Stati del Maryland e della California – con il democratico Ben Cardin e la progressista Barbara Lee preoccupati del passo indietro del governo Trump nella gestione dei rapporti con Castro.
Sia Rodriguez che Tillerson hanno tenuto a confermare la disponibilità da entrambe le parti a portare avanti la cooperazione nell’investigazione, così come il processo di riavvicinamento iniziato negli anni scorsi. Eppure, tra ipotesi di attacchi laterali, spionaggio e interessi di terze parti sembra di essere realmente tornati indietro di decenni, in clima di piena guerra fredda.