Cosa c’entrano gli stipendi con il referendum?
Gli stipendi italiani sono i più bassi d’Europa considerando il potere d’acquisto. Un giovane lavoratore su tre è a “basso reddito”. Ma cosa c’entra la situazione descritta da Eurostat con il risultato del referendum costituzionale?
di Guglielmo Sano
su Twitter @GuglielmoSano
Un lavoratore italiano, in media, guadagna 12,5 euro all’ora. Considerando il potere d’acquisto: 12,3 euro orari, riferisce Eurostat, l’istituto statistico dell’Unione europea, in un rapporto relativo al 2014. L’Italia è molto distante dalla media Ue che si attesta a 13,2 euro. Se la media è distante, quella della Germania (15,7/15 €) e della Francia (14,9 €) è un miraggio. In Europa Occidentale vanno peggio le cose solo ai lavoratori di Spagna (9,8€) e Portogallo (5,1€) che, d’altra parte, possono consolarsi con il maggiore potere d’acquisto della propria paga (rispettivamente 10,8€ e 6,3€).
Diametralmente, sempre secondo Eurostat, l’Italia ha una delle più incoraggianti percentuali di lavoratori a “basso reddito” – quelli che percepiscono un salario pari o inferiore ai due terzi della paga oraria media – dell’intera Eurozona. Sono solo il 9,4%. Meglio soltanto Francia (8,8%), Finlandia (5,3%) e Belgio (3,8%), quando la media europea è stimata al 17,2%. Il dato in sé farebbe pensare a un paese con poche disuguaglianze dal punto di vista salariale. Insomma, potrebbe sembrare “positivo”; anche se guadagnare tutti poco (o pochissimo) potrebbe non essere poi così entusiasmante.
Tuttavia, da precisare che, in Italia, la soglia di “basso reddito” si attesta a quota 8,3 € all’ora, la più bassa tra quelle delle altre economie europee comparabili (10 euro in Francia, 10,5 euro in Germania). Considerando, inoltre, che è a “basso reddito” il 21,1% delle donne – contro il 13,5% degli uomini – e il 30,1% dei lavoratori under 30 (tra i 30 e i 59 anni, invece, solo 14 dipendenti su 100 rientrano in tale categoria) non resta molto per cui sorridere.
Quest’ultimo dato permette di ricollegarsi al recente referendum costituzionale, amaramente perso, per così dire, dal dimissionario Matteo Renzi. Sembra che il più giovane Presidente del Consiglio della storia italiana sia stato sconfitto proprio dai più giovani, oltre che dal voto del Sud. Secondo l’analisi di SWG, il 71% di chi ha tra i 18 e i 24 anni il 4 dicembre ha votato “No”, così come ha fatto il 65% di quelli che hanno tra i 25 e i 34 anni. Il dato dell’istituto demoscopico triestino è uno dei più “gentili”. Secondo i dati dell’Istituto Piepoli, il 68% degli under 35 ha votato contro la riforma che portava il nome di Maria Elena Boschi (che di anni ne ha 35). Quorum per SkyTg24 faceva lievitare la percentuale fino all’81%.
Renzi ha iniziato la sua cavalcata verso Palazzo Chigi nel nome della “rottamazione”. Anche durante la campagna referendaria è tornato a parlare di “lotta alla gerontocrazia”. Queste “parole d’ordine”, inizialmente, avevano acceso le speranze dei più giovani. Le aspettative, però, non si sono mai davvero realizzate. Infatti, proprio tra i più giovani il tasso di disoccupazione orbita intorno al 40%. Nell’ultimo mese, è sceso al 36,4% ma solo grazie alla crescita degli inattivi aumentati di 82mila unità. Al Meridione solo un giovane su 3 ha un lavoro. Secondo l’Istat, nel 2016, si sono registrati 376mila occupati in più tra gli over50, mentre, tra i 35-49enni le unità sono state 126mila in meno, tra i 25-34 il calo è stato di 97mila.
Come si vedeva prima, i giovani che lavorano non se la passano molto meglio. Considerando che, dati della Commissione Europea, il 61% delle offerte di lavoro in Italia è costituita da tirocini – la media Ue si ferma all’11,4% – il quadro diventa tragico. Per chiudere il cerchio, in questi anni, Renzi ha guardato, tra bonus e “regali” di vario genere, soprattutto, ai più “anziani”. Sono di più, votano di più, possono essere mobilitati facilmente attraverso i sindacati, oltre a essere l’elettorato più semplice da convincere per un PD a trazione “centrista”, cioè quello che è riuscito a garantire, fino a pochi giorni fa, una parvenza di “governabilità”.
Ai giovani, al massimo, sono state elargite grosse delusioni. Jobs Act, Garanzia Giovani, incentivi fiscali per le aziende si sono tradotti in forme di lavoro sempre più precarie e sottopagate. Unica possibilità sembra l’emigrazione, nel 2015, 40mila giovani hanno lasciato il paese, riferisce la Fondazione Migrantes, offrendo una stima al ribasso, visto che si riferisce solo a chi è iscritto nei registri degli italiani all’estero. Almeno, sappiamo da dove ripartire.