Un mestiere “abusivo”
Il Senato ha approvato la proposta di legge n. 2281 dei senatori Marinello, Ruvolo, Mazzoni, Torrisi e Pagano. Spetta ora alla Camera decidere se, chi esercita la professione di giornalista “abusivamente”, rischia fino a due anni di reclusione e tra i 10mila e i 50mila euro di multa
di Guglielmo Sano
“Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da 103 a 516 euro” – così recita l’articolo 348 del Codice Penale. Per i Senatori Giuseppe Marinello, Salvatore Torrisi, Pippo Pagano (appartenenti al Nuovo centro destra), Giuseppe Ruvolo (Gruppo autonomie e libertà) e Riccardo Mazzoni (Forza Italia) non è abbastanza. La loro proposta, infatti, prevede un forte inasprimento delle pene per chi esercita abusivamente quelle professioni che, per esserlo, devono “passare” per una specifica approvazione da parte dello Stato, tramite l’iscrizione a specifici albi o elenchi.
Se la proposta, passata al Senato, fosse approvata anche dalla Camera – probabilmente sarà esaminata in Autunno – l’art. 348 del c.p. sarebbe riscritto in questo modo: “Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da 10.000 euro a 50.000 euro. La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle attrezzature e degli strumenti utilizzati”. Leggendo la “snella” proposta di legge è facile presumere che, l’attenzione dei proponenti, si è concentrata in particolare sulla necessità di ostacolare l’esercizio abusivo di una “professione o arte sanitaria”.
La proposta, nello specifico, non modifica solo l’art 348 del Codice Penale ma anche il 589 (omicidio colposo) prevedendo un’aggiunta al testo che recita: “la pena di cui al terzo comma (reclusione da 3 a 10 anni, ndr) si applica anche se il fatto è commesso nell’esercizio abusivo di una professione o di un’arte sanitaria”. Inoltre una modifica simile, sostanzialmente la previsione di una pena più “dura”, è stata proposta anche per l’articolo 590 (lesioni personali colpose) e per gli articoli 123 e 141 del Regio decreto n. 1265 del 1934 (Testo unico delle leggi sanitarie). La proposta, in ultima analisi, inasprisce anche le pene “per chiunque esercita l’attività di mediazione senza essere iscritto nel ruolo” (legge 3 Febbraio 1989, n.39).
Tornando al “nucleo” fondamentale dell’articolo 348 del c.p. possiamo dire che è “abusivo” chiunque eserciti una professione senza essere stato abilitato, chi è in possesso di un titolo idoneo ma non è iscritto all’albo, anche chi è iscritto all’albo ma dallo stesso è stato radiato o sospeso è “abusivo”, oppure coloro che “esercitano” con un’abilitazione conseguita all’Estero ma non riconosciuta dallo Stato italiano. Nel caso di un medico, l’esercizio abusivo della professione è un fenomeno grave, forse non proprio “endemico”, ma probabilmente “in buona fede” il “legislatore” sente il bisogno di inasprire le pene – vecchia, buona, cara e inefficace repressione, verrebbe da dire!
Il problema è che ci sono anche altre professioni alle quali si accede esclusivamente per mezzo di un’abilitazione “nazionale”, di un’iscrizione a un albo. È dunque chiaro che molti hanno storto il naso anche nel mondo dell’informazione perché, una di quelle professioni di cui stiamo parlando, è proprio il “giornalista”. A questo punto viene da domandarsi: chi sono i giornalisti “abusivi”? Sono tutti quelli che scrivono per un giornale o che semplicemente lavorano per esso senza essere iscritti all’Albo dei giornalisti e, quindi, senza appartenere all’Ordine. Ma se per diventare giornalista – spesso quello l’esame da “pubblicista” è il primo passo – si deve dimostrare di aver “collaborato” con una testata, allora, “osservando” tale “legge” come si fa a “collaborare” con un “giornale” se non si è già un “giornalista”? Il “paradosso” del “Comma 22” – quello dell’omonimo romanzo di Joseph Heller – è dietro l’angolo. Ma andiamo per gradi.
Forse non tutti sanno che per diventare “giornalisti pubblicisti” – quelli che nella vita possono anche svolgere altre attività lavorative oltre che quella di “giornalista” in senso stretto – per un biennio, in un certo senso, abusivi “devono” esserlo. Generalmente l’iter procede scandito da queste tappe: un’aspirante “pubblicista” trova una “testata”, un “giornale” registrato presso un tribunale che si può permettere di pagarlo con una certa cadenza per un numero di articoli che varia in base alle direttive dell’Ordine dei Giornalisti della regione di residenza del candidato. Questi, in seguito, presenterà i propri articoli, firmati anche dal direttore responsabile della testata all’Ordine – che se lo riterrà idoneo, gli rilascerà il “tesserino” di pubblicista, previo colloquio con una commissione di “colleghi”. Durante questo percorso ci si trova in un limbo – a quanto pare ai limiti della “legalità” – con questa legge o con quella di prima, è indifferente.
Il problema è che, con questa modifica, i giornalisti “abusivi” rischiano addirittura il carcere; il testo attuale, se non fosse ancora chiaro, prevede l’alternativa tra una multa, tra l’altro piuttosto “blanda”, e la reclusione. Quest’ultima, invece, con il testo proposto diventa cumulabile alla sanzione amministrativa. Fortunatamente l’Ordine dei Giornalisti ha espresso in una nota la propria preoccupazione per “l’inasprimento tout court delle pene per l’esercizio abusivo delle professioni regolamentate” poiché “per la professione giornalistica, la legge ordinamentale n. 69/1963 prevede, infatti, la possibilità di conseguire l’iscrizione all’elenco pubblicisti dell’Albo per coloro che possono dimostrare di aver svolto attività non occasionale e retribuita da almeno un biennio, per testate regolari. Di tale modalità di accesso si deve tenere conto nell’ambito dell’applicazione delle inasprite disposizioni”.
L’Ordine dei Giornalisti, proseguendo nella nota, arriva anche a promuovere una propria idea chiedendo al legislatore “di prevedere una norma che tuteli quanti abbiano comunicato al Consiglio dell’Ordine della regione di residenza la volontà di avviare il percorso di iscrizione all’Albo in qualità di pubblicista, da concludersi entro un biennio. Una sorta di “foglio rosa”, auspicato da tempo dall’Ordine (che avverte sempre più l’esigenza di una riforma generale) che consentirebbe non solo di ridurre i casi di sfruttamento ad opera di troppi editori, ma anche di vincolare ai doveri deontologici quanti intendono occuparsi di informazione”. Insomma, la proposta è buona, potrebbe essere una soluzione, ma il problema, in questi termini, poteva benissimo non essere posto; dobbiamo accettare come un doloroso e immutabile destino l’incapacità italiana di produrre leggi che “liberino” l’informazione, anziché “ingolfarla”?