Quel che resta de L'Aquila: il reportage sulla non-ricostruzione della città
Intervista ad Antonella Sabatino, regista del documentario a episodi girato a L’Aquila, a cinque anni dal terremoto che la distrusse. Con il supporto di Pierò Pelù, “Quel che resta de L’Aquila” racconta lo stato attuale di abbandono della città-cantiere, attraverso le testimonianze dei suoi abitanti
di Giulia Marras
su Twitter @giulzama
“Da qui si vedeva una delle più belle viste de L’Aquila, si vedevano tutti i tetti; era una meraviglia ve lo giuro, era uno spettacolo unico vedere tutta la città; questo è quello che è rimasto del centro storico….fermo a quella notte”. Dalle parole di Luca Meogrossi, Quel che resta de L’Aquila, ep.1 – 6 Aprile 2009.
Una notte italiana tra le altre, una che verrà ricordata a lungo, e che tra le altre vorrebbe invece essere dimenticata. Il ricordo permane e resterà indelebile per il dolore causato dalla terra stessa e per i 309 morti che il terremoto aquilano ha portato via con sé; ma perseguita ancora, non solo per la paura costante di un nuovo violento tremore, ma soprattutto per la presenza di quel ricordo, che diventa immagine viva e bruciante. Come gli attori di un brutto spettacolo concluso da tempo, che non vogliono lasciare il palcoscenico riproponendo la stessa, terribile, scena, il dolore aquilano non può sfumare, come quello di uno spettatore finita la pièce, perché quella scena ritorna agli occhi tutti i giorni, l’immagine del passato resta nel presente, e dalla finzione teatrale non si ritorna più alla realtà, così come qui dalla distruzione non si ritorna alla normalità.
Da quella notte infatti, L’Aquila, tra processi, tangenti, appalti illeciti e finanziamenti europei misteriosamente “perduti”, è rimasta una città semi-distrutta e abbandonata, il cui centro storico rimane chiuso ai suoi stessi abitanti. Delle ricostruzioni promesse, tante quante il numero dei governi succedutisi a partire dalla legislazione Berlusconi di allora, molte sono cominciate, pochissime sono state concluse: ad oggi L’Aquila è la città-cantiere più grande d’Europa. Inoltre il recente rapporto della Commissione Europea ha evidenziato gli ingenti sprechi economici dettati da una burocrazia lenta e malfunzionante, fondi probabilmente arrivati “in maniera diretta o indiretta” in mano alla criminalità organizzata, nonché duramente criticato i metodi e materiali utilizzati per le prime costruzioni dopo il sisma.
Ma al di là del disastro fisico e architettonico a cui è ridotta la città, è soprattutto il disagio sociale che deve essere urgentemente sconfitto. Con ancora oltre ventimila sfollati, L’Aquila è a rischio di totale spopolamento – solo nell’ultimo anno sono andati via circa tremila cittadini -, chi rimane combatte quotidianamente con la disoccupazione e la depressione, portando a livelli altissimi il consumo di psicofarmaci, droghe, alcol e suicidi.
Proprio per raccontare “Quel che rimane de L’Aquila” e dei suoi abitanti, di una città fantasma e dei suoi spettri, e per denunciarne la non-ricostruzione, nasce il reportage della Dinamoscope, casa di produzione di audiovisivi quali videoclip, spot, corti e documentari, nata da tre giovanissimi professionisti del settore.
Abbiamo intercettato la regista del reportage, nonché una delle fondatrici della Dinamoscope, Antonella Sabatino, e ci siamo fatti raccontare quando hanno deciso di partire per L’Aquila e come è nato il progetto. “Qualche mese fa Paolo Annesi, leader della band Twiggy E’ Morta!, mi ha proposto di girare un videoclip a L’Aquila. Conoscendo bene la città, cercava di convincermi di quanto fosse drammatica la situazione, di quanto tutto fosse rimasto fermo esattamente alla notte del terremoto dopo 5 anni, cosa che io stentavo a credere, non essendoci mai stata.
Fin da subito, comunque, abbiamo deciso che non si sarebbe trattato di un video musicale standard: lo avremmo integrato con delle interviste da inserire nel lungo pezzo strumentale della traccia, creando quello che mi piaceva chiamare “docuclip”, un ibrido tra documentario e la forma breve del video musicale. Arrivata lì, con Alessandro Salzillo, altro membro Dinamoscope nel ruolo di direttore della fotografia e operatore, e i membri del gruppo, ho davvero capito la gravità della cosa e ho giurato a me stessa di mostrare a tutti l’orrore che neanch’io mi sarei mai aspettata di trovare.”
Da quando è uscito sui canali web, video e social, il giorno stesso della commemorazione dei 5 anni anni esatti dal terremoto, il vostro documentario ha avuto il pieno supporto di Piero Pelù, artista non sconosciuto a iniziative sociali di emergenza, e adesso anche nei primi titoli dei giornali per le polemiche al Concertone del Primo Maggio e le accuse al premier Renzi (“Boy scout di Licio Gelli”). In che modo e a che punto della produzione di Quel che resta de L’Aquila è arrivato il suo aiuto? “Il supporto di Pelù è il punto di arrivo di un percorso veramente tortuoso. Dopo un giorno di riprese e circa una decina tra montaggio e color, il videoclip era pronto: in coda avevo montato anche 8 minuti di reportage, con protagonista Luca Meogrossi, un avvocato aquilano incontrato lì quel giorno che ci ha accompagnato nel cuore della città colpita dal terremoto.
Sfortunatamente i Twiggy E’ Morta! si sono sciolti poco prima dell’uscita dell’album e del video. Insieme ad Alessandro Salzillo e Paolo Annesi, abbiamo deciso di portare avanti comunque il progetto, se non altro per rispetto delle persone intervistate e per rendere pubblico quello che avevano detto alle nostre telecamere. E’ stato in quel momento che ho iniziato a scrivere a una miriade di artisti: tra le varie risposte c’è stata quella di Piero Pelù, che ci ha proposto di creare degli episodi del reportage da pubblicare sulla sua pagina Facebook. Si tratta quindi di un progetto totalmente autofinanziato, che si avvale del sostegno di un grande artista come Piero Pelù e della voglia di smuovere un po’ di coscienze assopite.”
Il reportage infatti ha assunto una forma seriale, con l’uscita di un episodio a settimana di circa tre minuti, ogni lunedì, come quasi a voler rimandare, tramite la ciclicità del mezzo, al prolungarsi dell’attesa degli aquilani e al loro stato d’animo in pausa, tra passato e futuro, tra incertezza e speranza. Non si può parlare esattamente di web-serie, come spiega Antonella: “la numerazione è semplicemente legata al fatto che gli episodi si succedono in ordine cronologico, in base alla “passeggiata” fatta con Luca Meogrossi, più gli inserti musicali e delle altre interviste.”
Gli episodi si muovono e si articolano infatti tra le testimonianze di chi c’era e di chi ancora ha la forza di parlare di quella notte, ma anche attraverso i brani musicali che li accompagnano, strutturandosi così, tramite l’uso di un montaggio veloce, di una camera a mano e di una fotografia desaturata, proprio come un videoclip, o “docu-clip”, rivelando la lunga esperienza di Antonella e della Dinamoscope con il mondo musicale.
Come è nata questa scelta stilistica? “Una volta ottenuto l’ok di Pelù e deciso di creare un video-reportage a episodi, mi sono imbattuta nel problema della colonna sonora, non potendo più utilizzare il brano dei Twiggy E’ Morta. Ho quindi contattato un po’ di band e chiesto di spargere la voce, nella speranza di riuscire ad avere a disposizione un po’ di tracce strumentali da poter inserire nei vari episodi. La mia richiesta ha avuto un grande riscontro e dovendo essere gli episodi di una durata compresa tra il minuto e mezzo e i 3 minuti, ho iniziato a ipotizzare l’utilizzo di un brano per ogni puntata: alcuni artisti, come Ciro Tuzzi, leader degli EPO, e Moise, hanno appositamente composto dei brani, i Freak Opera mi hanno proposto un loro brano inedito, gli Intercity, di Brescia, e il duo Nanai, di Torino, hanno contribuito con delle versioni strumentali di due loro brani, per non parlare dei Retina, che mi hanno proposto un brano creato per un concorso legato al terremoto dell’Irpinia.
Hanno inoltre collaborato Patrizia Morganti, i Forefront e i Vena. Essendo molto legata alla forma del video musicale e constatando questa grande affluenza, ho deciso dunque di differenziare i vari episodi lavorando a un montaggio che assecondasse i vari brani, che danno il titolo alle puntate: un modo per restare ancorata all’idea di partenza di “docu-clip”, creando una sorta di gruppo di musicisti e artisti uniti per L’Aquila.”
Ogni episodio è un piccolo viaggio all’interno della Zona Rossa della città, anche se “L’Aquila è un’unica zona rossa, un museo dell’orrore aperto al pubblico”, specifica la regista, “il terremoto è ancora lì, per le strade, tra gli oggetti di una quotidianità passata che puoi trovare a ogni angolo: telecomandi, carte da gioco, giocattoli, forni caduti da chissà quale piano di chissà quale palazzo. Il vero problema non è stato non riuscire ad ottenere nessun permesso, ma poter entrare comunque ovunque senza problemi.”
E’ stato facile trovare le testimonianze e, soprattutto, stabilire un contatto e una fiducia reciproca per riuscire a parlare, ancora, di un momento così delicato? C’è ancora speranza negli aquilani, secondo te, o è rimasta soltanto rassegnazione?
“L’unica preparazione per le riprese è stata l’idea di andare lì e rubare con le telecamere quante più immagini possibili nel minor tempo possibile. Rubare quello che avrebbero visto i nostri occhi per poi essere in grado di mostrarlo agli altri: un mostrare privo di giudizi ma che intrinsecamente critica le modalità di gestione della situazione de L’Aquila. Proprio per questo abbiamo deciso di far parlare gli aquilani. Le persone che abbiamo intervistato (nello specifico abbiamo fatto due domande “un’immagine di quella notte” e “speranze per il futuro”), si sono mostrate assolutamente disponibili a condividere anche momenti così drammatici e delicati come quei 39 secondi di terremoto: in generale abbiamo percepito la volontà di voler urlare al mondo la loro condizione, la situazione a 5 anni da quel 6 aprile 2009 che la maggior parte degli italiani non si aspetta e crede essere risolta, così come non ce l’aspettavamo noi.
Il confine tra rassegnazione e speranza è diventato invisibile. Quello che ho percepito è il senso di solitudine, l’idea di essere lasciati soli, dopo essere stati protagonisti di un fenomeno mediatico che ha portato L’Aquila ad essere al centro dell’attenzione degli italiani per molti mesi successivi al terremoto. Ora in televisione non se ne parla più, ma il problema persiste. Quel che resta de L’Aquila vuole riportare un po’ di speranze negli aquilani, che finalmente possono dire la loro attraverso la cassa di risonanza di Piero Pelù e della sua pagina.”
Ogni Lunedì quindi, appuntamento sui canali della Dinamoscope, Vimeo e YouTube, con gli episodi di Quel che resta de L’Aquila, per ora giunti a tre.
Per conservare le immagini di quel terremoto che 5 anni fa la distrusse; catalogare le macerie, ascoltare le paure, e ricordare le contraddizioni del dopo-sisma, per poi magari un giorno, per questa volta, finalmente, dimenticare. E tornare a vivere L’Aquila.