101 tragedie 101 capolavori
In mostra alla Aperture Gallery di New York, lo sguardo diverso sulla cronaca nera del fotografo messicano Enrique Metinides
di Alessia Signorelli (@signorellialexa)
La bellezza del fotogiornalismo sta nel suo sfidare regole e convenzioni e di riuscire, se si è dotati di un talento innato e dell’altrettanto congenito dono di saper catturare il “momento giusto”, a raccontare una storia attraverso lo scatto di un apparecchio fotografico. Ed Enrique Metinides, fotografo messicano, nato nel 1934 ne è un esempio (vivente).
Per più di cinquant’anni, Metinides ha lavorato come fotografo per i giornali locali di Città del Messico e per notori giornali di “nota roja”, l’equivalente della nostra cronaca nera, raccontando incendi, morti, incidenti e violenze di ogni tipo, che accadevano proprio nella sua città natale.
Eppure, le fotografie di Metinides, che, giustamente, nel corso degli anni è stato insignito di svariati riconoscimenti e premi, tra i quali il Mexico’s Espejo de Luz Prize, nel 1997 (riconoscimento assegnato al fotografo messicano più talentuoso) e il Kodak Messico, hanno una qualità, una “sensibilità” che le rende uniche nella loro specie – quasi si trattasse di uno scatto “cinematografico”, come se ci trovassimo su un set studiato, non una scena del crimine, eppure mai, mai per un solo attimo si viene sfiorati da qualsivoglia sgradevole sensazione di “artificialità” o “finto.” E’ tutto vero, ma quasi non lo è.
Sebbene Metinides abbia esposto in tutto il mondo, questa della Aperture Gallery “101 Tragedies of Enrique Metinides” (che sarà visitabile fino al prossimo 20 aprile) è la prima mostra in cui le foto non solo sono state scelte dal fotografo stesso, ma sono anche accompagnate dai suoi commenti, dai suoi racconti, dai suoi ricordi relativamente a questo o quello scatto, e quelli relativi ai personaggi più disparati che hanno popolato e popolano le strade di Città del Messico. Insomma, non solo una mostra di fotografie tra le migliori nella categoria del fotogiornalismo di nera, ma anche il racconto, il collage della vita di Metinides, fatto di parole ed immagini.
A curare la mostra è la giovane filmaker, curatrice di fotografia contemporanea e una tra gli assegnatari della Guggenheim Fellowship, Trisha Ziff, che, per cinque anni, ha lavorato a questo progetto fianco a fianco con Metinides.
Le opere, perché, alla fine, le si può definire così, di Metinides, sono prive di quella morbosità cui la cronaca nera (nostrana e non) ci ha oramai abituato, ma mostrano la sapienza di un occhio posto dietro un obiettivo, il cui desiderio è narrare con l’immagine l’immagine stessa, come in una serie di “scatole cinesi” virtuali, dove tutto viene catturato in un attimo che diventa quasi una meta-rappresentazione della vita – o meglio, della morte.
Ad accompagnare questa mostra, un portfolio in edizione limitata che strizza un po’ l’occhio alla furbata del super- realismo. Chi acquista le foto, infatti, se le potrà portare via nelle buste del Costco (la più grande catena americane di ipermercati all’ingrosso) presso il quale Metinides le ha fatte stampare (e sì, le buste sono proprio quelle con le quali il fotografo si è portato a casa le stampe).
E, come se non bastasse, il catalogo che accompagna la mostra contiene le foto di finti scenari, ricreati da Metinides, attraverso l’uso della sua personalissima collezione di ambulanze e camion dei pompieri giocattolo, ispirati alle foto scattate nella sua lunga carriera.
Il “contorno” della mostra, ce la dice lunga sulla personalità di Metinides, che dimostra di essere molto attento e molto consapevole di quella che è la “commedia umana”, che si dimostra tragi-commedia nelle situazioni più drammatiche. Forse, in questa che è stata definita una “interessante svolta” nel suo modo di fare fotografia, giace anche la consapevolezza, sicuramente rinforzata con lo stare per più di mezzo secolo a contatto con tragedie di ogni genere, della “leggerezza” della vita, del suo essere effimera; forse, con le foto nel catalogo e l’impiego di modellini, Metinides avrà voluto ricordarci che, in fondo in fondo, la nostra vita è il gioco preferito di certi dei crudeli ed anche un po’ infantili.