L’ultimo fragile ritratto di Amy Winehouse
Nelle sale italiane solo per tre giorni (dal 15 al 17 settembre) “Amy”, il documentario che racconta la cantante inglese Amy Winehouse nel suo modo più puro
Si potrebbero dare vari motivi per i quali sarebbe meglio non vedere Amy, il documentario su Amy Winehouse. Tanto per iniziare, per evitare quella morsa allo stomaco che ti assale ogni qual volta appare sullo schermo cantando canzoni già diventate, per chi l’ha amata e seguita, immortali.
Non si dovrebbe vederlo sopratutto per evitare di scendere a patti con il senso di colpa che in qualche modo affiora a fine proiezione, per aver riso solo qualche anno fa a stupide battute sul suo conto o magari non averla difesa con più foga a chi la bollava ormai come una semplice tossicodipendente.
Non si dovrebbe vederlo perché sarebbe poi difficile controllare le emozioni che ti assalgono nei fotogrammi finali quando capisci che è finita davvero e che quel nuovo album tanto atteso non arriverà mai.
O forse non è così.
Amy bisognerebbe vederlo a prescindere dall’essere stati fan o meno dell’indiscusso talento inglese.
Prima di tutto Amy è un ottimo esempio ben documentato di come, dietro ai titoli dei tabloid, si celi in realtà un’altra storia. Ben più dura, triste e irrisolta come nel caso della Winehouse. Come gli ultimi pessimi siparietti sul palco o l’abuso di alcool e di droghe, in realtà, siano stati un modo per riappropriarsi di qualcosa che le mancava e desiderava. Forzando la mano a fine proiezione si ha quasi l’impressione che non siano stati gli anni di eccessi a stroncare il suo cuore ma semplicemente l’amore.
Un amore forse a tratti superficiale da parte dei suoi genitori, incapaci di aiutarla nel modo giusto. Un padre che per primo non crede nella necessità di mandarla in rehab, che afferma di non sapere cosa doveva fare perché “toccava ad Amy volersi salvare”. Gela il sangue sentire un padre parlare così. Gela il sangue sentire una madre liquidare, negli anni dell’adolescenza, il disturbo alimentare della figlia come qualcosa di superficiale. La bulimia accompagnerà invece Amy Winehouse per buona parte della sua breve vita, portandola a perdere tra il primo e il secondo album un paio di taglie, rendendo il suo corpo facile terreno per battute di ogni genere da parte dei giornali.
E sullo sfondo rimane per buona parte presente in modo ossessivo un amore totalizzante e sbagliato per l’ex marito Blake Fielder-Civil, colui che ha ispirato ogni traccia di Back to black, che l’ha iniziata al mondo delle droghe pesanti trascinandola in una spirale autodistruttiva senza fine. Folle, folle d’amore Amy Winehouse. Folle e sola in questo stesso amore, con solo una siringa in mano o della polvere bianca.
Ed è qui davanti a queste scene che le parole di Love is a losing game assumono un significato pieno e potente, i suoi testi completano finalmente un puzzle rimasto a lungo incompleto.
Il regista Asif Kapadia ha trovato infatti la chiave di lettura perfetta per raccontare questa storia, comprendendo come la verità risiedesse nelle parole e nelle melodie scritte sempre in prima persona dalla cantante. Canzoni che abbiamo canticchiato fino allo sfinimento, dedicato a un amore passeggero o ascoltato pigramente alla radio, acquistano nel corso del documentario un nuovo significato. Le parole infatti scorrono veloci sullo schermo, accompagnate dalla voce di Amy, e leggendole in modo chiaro e inequivocabile comprendiamo finalmente l’emozione iniziale che ha dato loro vita.
Un percorso nei meandri della mente e nelle emozioni di Amy Winehouse, che permette agli spettatori di conoscere forse l’indole più nascosta e segreta della cantante, eliminando ogni sua composizione da qualunque sovrastruttura del mercato discografico.
È questo sicuramente il grande merito di questo documentario, far appassionare alle canzoni della cantante inglese anche chi, in passato, non si era mai professato suo grande fan. Far conoscere il processo creativo ed emotivo che esisteva alla base di ogni singola traccia e che, a sua volta andava, a comporre un disegno più ampio. Non Frank o Back to black (i suoi due album) bensì la stessa Amy Winehouse, libera di mostrarsi “struccata” di ogni droga, bicchiere di whiskey e cola o articolo di gossip. Libera di mostrarsi per quello che era: una cantante jazz. Una delle migliori nel suo genere anche a detta di Tony Bennett, idolo di questa ragazza cresciuta nella periferia nord di Londra e con cui duettò nel pezzo Body and soul.
Un’anima di sessant’anni racchiusa nel corpo di una ventenne. Una che a diventar famosa non ci teneva particolarmente, che temeva le luci dello star system e che forse mentre divora i metri che la separano da quel primo Brit Award vinto, già intuisce che non è quella la giusta direzione per sé, per la sua musica e per i suoi sogni.
Amy finisce così per riscrivere e raccontare un personaggio troppe volte facile bersaglio di una stampa che divora senza pietà le sue stesse creature. E bisognerebbe vederlo anche per questo motivo, per comprendere come il successo non voluto, mal gestito e rigettato, conduca spesso a una sorte di “cronaca di una morte annunciata.”
Ma soprattutto si dovrebbe vedere perché racconta la storia di una voce che a prescindere dagli eccessi è stata capace di raccontare un’emozione, una storia, un tormento. Per riscoprirsi fragili e malinconici insieme a lei.