Il "Sangue" di Delbono
Il film, presentato al 66esimo Festival di Locarno, sarà proiettato fino al 22 gennaio al Nuovo Cinema Aquila di Roma. L’incontro fra l’eclettico regista e il “mostro” ex terrorista Senzani, che ha scatenato polemiche nell’opinione pubblica
di Francesca Britti
Cosa accomuna un regista di educazione cattolica (anticomunista e buddista) e un ex terrorista delle Brigate Rosse? Il dolore. Quel dolore che tocca tutti, e da cui non puoi scappare. Come dalla morte.
La morte della propria città, L’Aquila, in rovina dopo il terremoto i cui abitanti, lottando, cercano ancora delle risposte dai colpevoli; la morte della donna che si ama e che ti ha accompagnato pazientemente per tutta la vita. Una madre per Pippo Delbono, regista della pellicola Sangue, e una moglie per Giovanni Senzani, ex terrorista delle BR.
In Sangue il regista ha ricostruito l’ultimo periodo di vita della madre, malata di tumore, intrecciandoli ai ricordi di Giovanni Senzani, la cui moglie, anche lei colpita dal tumore, muore pochi giorni dopo la scomparsa della madre di Delbono. Un Giovanni Senzani calmo, riflessivo e segnato dalla sofferenza.
Ma la figura dell’ex terrorista non è stata mai ripulita o vittimizzata. Il film, come ha sottolineato il regista, è con un brigatista e non su un brigatista. Delbono ci ha permesso di scoprire il lato più intimo di un uomo dagli errori imperdonabili. Senza moralismi. Con semplicità e curiosità “interroga” l’amico sul suo passato, che viene giudicato dalla stesso Senzani incancellabile e sulla riabilitazione presente. Soprattutto l’importanza dell’amore nella sua vita, di una moglie, che non ha mai condiviso la sua lotta armata ma che gli è restata accanto sempre, per 23 anni di prigionia, nella speranza un giorno di riabbracciarlo.
Due poli opposti ma che si attraggono sembra valere nell’amore filiale. Delbono, riprendendo la madre durante la sua agonia, è come se avesse provato ad tener accesa la speranza di mantenerla in vita, spingendolo addirittura ad un viaggio a Tirana alla ricerca di un medicinale miracoloso. E crea un cerchio che parte dalla vita, arriva alla morte, rappresentata dal cadavere della donna disteso su un tavolo con le mani incrociate che trattengono il rosario, per poi ritornare sulla vita, la vita post-mortem.
Sangue è la storia, quindi, anche di due donne che riempiono i vuoti interiori dei loro uomini, e la cui scomparsa li lascia feriti e orfani, proprio come l’Aquila, silenziosa, spoglia, cadente. A loro del Bono dedica la sua pellicola “A mia madre e ad Anna / Che non si sono mai incontrate in vita / Ma che hanno viaggiato insieme / Verso la morte. / E chissà, / Forse da qualche parte, / In un luogo fuori dal tempo, / Fuori dallo spazio, / Fuori dai paradisi, /Fuori dagli inferni inventati per farci paura, / adesso sono diventate amiche“.
Sangue è come un filmino, girato con una comune videocamera, con le “imprecisioni” dovute (e volute) alla presa diretta. Ma è questo modo di filmare, così intimo, che ti fa entrare nella vita dei due “personaggi” e ti fa sentire parte della storia, come se stessi percorrendo la strada insieme a loro. Un racconto sincero che fa abbattere le perplessità per una scelta politically uncorrect e lascia via libera alla volontà di scoprire cos’altro c’è dietro “il mostro” Senzani. Una scelta tecnica che garantisce una libertà nello sguardo e da quelle “gabbie produttive e distributive” del cinema.
Due anime diverse ma vicine, accomunate dalla morte e dalla conseguente riscoperta del senso della vita, dalla ricerca della verità – da cui nascerà la vera arte, diceva Gandhi – dal senso di abbandono e dalla necessità di accettare la solitudine, dall’essere diventati orfani, dall’ideologia della libertà, per Delbono ricercata nell’arte, per Senzani nella lotta armata.