Caso Li-Yan: una condanna ingiusta
E’ polemica in Cina per la sentenza di morte emessa dalla Corte Suprema del Popolo per un omicidio, commesso da una delle vittime di quotidiane violenze domestiche
di Alessandra Colarizi
Li Yan non deve morire. E’ questo l’appello lanciato da oltre 400 persone, tra comuni cittadini, avvocati e accademici, firmatari di una petizione per fermare la “macchina dell’ingiustizia” cinese.
Li, 41 anni, originaria della provincia occidentale del Sichuan, rischia la pena di morte per aver ucciso suo marito durante una delle tante dispute finite in violenza. Una di quelle volte in cui Tan Yong, questo il nome dell’uomo, l’aveva picchiata dopo aver ecceduto con l’alcol.
Presa a calci e minacciata con un fucile ad aria compressa, Li disarma il suo aggressore e lo colpisce ripetutamente alla testa. Quando lo vede gravemente ferito, in un primo momento tenta di soccorrerlo, poi capisce che non c’è più nulla da fare e in preda al panico pensa al modo migliore per disfarsi del cadavere. Lo smembra e ne getta parte in un bagno pubblico, il resto in una diga.
Era il novembre 2010; Li e Tan erano sposati da solo un anno. I mesi precedenti all’assassinio erano trascorsi tra percosse, mozziconi di sigaretta spenti in faccia e sevizie di vario genere. Tan le aveva tagliato a pezzi e dita, l’aveva chiusa di notte in balcone in pieno inverno, l’aveva trascinata giù per le scale tirandola per i capelli. La gioviale ed espansiva Li – racconta il fratello – si era progressivamente chiusa in sé stessa, non osando raccontare ai familiari l’incubo al quale veniva sottoposta quotidianamente.
Inutili le richieste d’aiuto inoltrate alla polizia, al comitato di quartiere e alla sezione locale di All China Women’s Federation (ACWF), contattati già nell’agosto 2010. Per le forze dell’ordine le violenze domestiche rientrano nella fumosa categoria degli “affari di famiglia“.
Le prove degli abusi, comprese le registrazioni della polizia, cartelle cliniche, foto delle ferite e le denunce inviate a ACWF sono state ritenute insufficienti dal Tribunale Intermedio del Popolo di Ziyang. A commettere gli abusi potrebbero essere stati amici e parenti, come pare abbiano dichiarato alcuni testimoni durante il processo, ragione per la quale il Tribunale ha condannato Li alla pena capitale, con l’accusa di “omicidio volontario“.
“L’omicidio è stato commesso in modo crudele e pertanto le conseguenze saranno gravi“: il verdetto, approvato lo scorso agosto dalla Corte d’appello, è stato confermato recentemente dalla Corte Suprema del Popolo, la quale, tuttavia, non ha ancora emesso l’ordine d’esecuzione. Una volta che il massimo tribunale cinese avrà dato il via libera, la donna verrà giustiziata entro sette giorni.
La storia di Li Yan ha rinnovato lo sdegno popolare per una questione particolarmente sensibile in Cina: quella delle violenze tra le mura di casa, una piaga che continua affliggere il Dragone nonostante i numerosi appelli delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Come riporta Human Rights Watch, dal 7 novembre ad oggi oltre 8.000 persone hanno sottoscritto una petizione per chiedere una legislazione specifica in materia.
Secondo le statistiche rilasciate dal governo cinese nel mese di gennaio, una donna su quattro subisce soprusi in famiglia, dallo stupro coniugale alle percosse, ma, come emerso da studi indipendenti, nelle zone rurali la situazione sarebbe ben peggiore. A partire dal 2000, in tutto il Paese sono stati emessi regolamenti a livello locale; norme basate su principi generali e prive di disposizioni specifiche in grado di difendere effettivamente le vittime.
Le crescenti richieste di una legislazione anti-violenze ha spinto la Corte Suprema ad effettuare un’indagine, i cui risultati, rilasciati nel gennaio 2013, evidenziano l’insufficienza del corpo normativo attuale: non esiste uno standard che preveda chiaramente quali investigazioni e quali azioni penali debbano essere attuate, con il risultato che raramente episodi di abusi raggiungono il tribunale. E anche qualora riescano a varcare le aule di giustizia, la magistratura li considera “dispute coniugali“, comminando quasi sempre pene troppo leggere.
Ormai da diversi anni All China Women’s Federation spinge perché venga approvato un progetto di legge sulle violenze domestiche. In tutta risposta all’inizio del 2012 l’Assemblea Nazionale del Popolo, il “Parlamento” cinese, ha fatto sapere di avere in agenda una formulazione di tale tipo, senza, tuttavia, indicarne dettagli o tempi d’attuazione.
Poiché la Cina ha aderito a diversi trattati internazionali per la difesa dei diritti delle donne – sottolinea Human Rights Watch – il governo avrebbe l’obbligo di adottare misure efficaci per affrontare e risolvere il problema degli abusi familiari, emanando una legge organica conforme a quanto stabilito dall’Organizzazione delle Nazioni Unite.
E se la giustizia cinese continua a tentennare, l’opinione pubblica, invece, si schiera a spada tratta in difesa del gentil sesso. Lo dimostra, per esempio, l’ampia eco suscitata dal caso di Li Yang, il noto fondatore di Crazy English, che nel 2011 ammise pubblicamente di aver picchiato più volte la moglie. Negli ultimi tempi la lotta per i diritti delle donne nell’ex Celeste Impero ha assunto nuove e più originali forme di espressione. Lo scorso San Valentino a Pechino diverse donne avevano manifestato indossando abiti da sposa macchiati di sangue finto, mentre negli scorsi mesi una campagna sul web ha spinto molte a pubblicare le proprie foto senza veli in atto di protesta.
La spietatezza della sentenza contro Li Yan ha finito per riaccendere il dibattito sulla pena di morte, un altro argomento ampiamente discusso nel Regno di Mezzo. Secondo Amnesty International, la Cina è il Paese con il maggior numero di esecuzioni capitali, seguito dall’Iran. La stessa Ong ha lanciato un appello urgente affinché la condanna di Li venga mitigata.
“Fin quando la pena di morte non verrà completamente abolita” ha scritto alcuni giorni fa sull’Oriental Morning Post di Shanghai l’avvocato Zhang Peihong, “è necessario avere uno stretto controllo su di essa. E questo vuol dire cercare ogni motivo e ragione per non imporre la sentenza capitale a nessuno“. Sullo stesso spartito Sophie Richardson, direttrice della sezione cinese di Human Rights Watch, la quale ha affermato che “punire con la morte Li Yan non servirà a garantire la giustizia in questo orribile incidente. Anzi, peggio. Sarà un messaggio per chi patisce violenze domestiche che gli abusi continueranno a rimanere impuniti“.
La scorsa primavera il polverone era stato sollevato dal caso di Wu Ying, condannata alla pena capitale con l’accusa di “raccolta fraudolenta di fondi” per 770 milioni di yuan. Sulla scia delle riforme del diritto penale attuate il primo maggio 2011, Pechino ha abrogato la pena di morte per tredici reati economici di natura “non violenta”, ma nel caso di finanziamenti illeciti la legge continua ad essere severissima. Dopo numerose proteste, lo scorso maggio la sanzione per Wu Ying è stata ridotta alla pena di morte con sospensione, presumibilmente, da commutare in ergastolo dopo due anni.
rebloggo.posso?
Certo egle1967!