Lou Reed, l’esteta del vuoto morale
Ricorre oggi la scomparsa di Lou Reed. Più di 40 anni di carriera con una produzione di oltre 40 dischi, la lirica sempre diretta accompagna ogni sua sperimentazione musicale. Reed canta così l’umanità senza etica
di Martina Zaralli
su Twitter @Mart_Zeta
Ogni giorno è un giorno perfetto per passeggiare sul lato selvaggio della vita.
Lewis Allan Reed, detto Lou, non è semplicemente un musicista, un cantautore. Lewis Allan Reed, detto Lou, è l’esteta dell’umanità metropolitana, cruda, perversa, oscura; di quell’umanità che disgusta il perbenismo del pop, ma appaga il nichilismo del punk.
Scarno ed essenziale. Reed è un visionario mosso dalla voglia viscerale di scolpire con una semplicità di stile, a volte disarmante, la perfetta narrazione del vero: scrive storie in musica, esorcismi sintetici delle sue inquietudini.
La sua esistenza è una continua ricerca del nuovo, una rottura con l’ipocrisia racchiusa negli stilemi della dimensione temporale in cui Reed, nel corso dei decenni, si colloca.
Alla linearità del personalissimo guardare avanti, si contrappone la curva agonizzante delle sue emozioni, in una perpetua oscillazione tra sentimenti discordanti, sorretta solo dalla forza salvifica della musica.
Più di quarant’anni di carriera segnati da linee evolutive affamate di vita: dall’esordio ufficiale nel 1967, The Velvet Underground and Nico, con sonorità minimaliste e distaccate dal tipico blues del rock’n’roll del tempo, all’ultima pubblicazione, Lulu, con i Metallica nel 2011, dalle chiare influenze heavy metal.
Importantissimo il sodalizio artistico e professionale con Andy Warhol e David Bowie, ma, ai fortunati incontri con le personalità più eclettiche del tempo, Reed preferisce sempre il torbido fiume della quotidianità. Come quando, forte della collaborazione con il Duca Bianco, pubblica Transformer (seconda prova da solista, 1972) un omaggio al regno glam rock della factory, un lavoro che gli apre le porte dell’Olimpo sonoro. Quella sequenza di successi, però, da Walk on the wilde side a Perfect Day, da Vicius a Satellite of Love non gli basta. Reed vuole di più del mondo patinato e ambiguo, vuole la nudità del sentimento. Ecco allora il racconto di una storia d’amore scritta a colpi di cinismo: Berlin (1973), un concept album rimasto a lungo incompreso che si impone come un vortice di disperazione, sesso e droga, un riflesso musicale della sua fallimentare vita di coppia.
Il lavoro non ha l’effetto sperato. Reagisce con la durezza di Rock’n’Roll Animal (1974, rilettura in chiave hard – rock di alcuni pezzi velvettiani) e con il paranoico Sally can’t dance (1974), disco che si piazza ai primi posti delle classifiche colmando così quel vuoto berlinese: uno dei tanti esempi del mito di Reed, l’alba sfacciata che segue il suo stesso tramonto. Se cade, Reed si rialza.
Ancora una volta è la vita, con i suoi misteri e le sue sofferenze, che gli offre l’ennesima sperimentazione creativa, spingendolo verso un sound diverso, cupo, introspettivo, intimo. Un’ideale trilogia intesa, matura e raffinata che spazia dalla denuncia sociale di New York (1989) a Magic and Loss (1992), passando per il capolavoro di Songs for Drella (1990), la dedica per il compianto Warhol, a cui collabora anche l’ex socio dei Velvet Underground, John Cale.
In tutto 46 dischi: 20 in studio, 10 live e 16 raccolte. Un filato di stile provocatorio e dissonante che avvolge la musica in tutti i suoi generi. Punk rock, new wave, Lo-Fi, alternative rock, elettronica, heavy metal.
Ma il nido emozionale si completa sempre e solo con la lirica diretta, reale; cronaca dell’adorazione dei suoi spettri, mostri dai quali Reed non fugge.
Il demone di asfalto e perdizione, in jeans e giubbotto di pelle, fa così delle sue debolezze il lume della sua ipertrofica produzione: una fiducia forse incondizionata nella forza suggestiva dell’amoralità dell’uomo che sposa in ogni tappa del suo percorso artistico, accompagnato da una voce che sembra aver rinunciato all’entusiasmo, ma che in realtà canta l’avanguardia.
“Ho sempre creduto di avere qualcosa importante da dire. E l’ho detto“.
Lou Reed (New York, 2 marzo 1942 – Southampton, 27 ottobre 2013)
(fonte immagine: corrieredellamusica.it – Credit Image: © Timothy Greenfield-Sanders/UPPA/ZUMAPRESS.com)