Il Kit Kat Klub e il suo “Cabaret” conquistano il Brancaccio
Sul palco del teatro romano torna dopo anni di assenza il famoso musical, per ricordarci come la vita non sia sempre un “Cabaret”
C’era un cabaret… e alla fine non c’è più.
Il Kit Kat Klub avamposto di libertà e leggerezza della Berlino anni ’30 è il luogo in cui si dipana la storia d’amore tra Sally Bowles (Giulia Ottonello) e Cliff Bradshaw (Mauro Simone). Sullo sfondo una città in continuo cambiamento, prossima preda di una follia chiamata nazismo.
Cabaret racconto questa triste metamorfosi, una città e un Paese in bilico tra la fine di un’era, la Repubblica di Weimer, e l’inizio di una nuova implacabile realtà contrassegnata dall’ascesa del nazionalsocialismo.
Ed è sullo sfondo di questo passaggio che si muovono i personaggi che ruotano intorno a questo club di dubbia fama. Non solo la sua stella indiscussa, quella giovane inglese di nome Sally, o lo scrittore americano squattrinato Cliff, ma anche Fräulein Schneider (Altea Russo) e il suo vecchio spasimante ebreo Herr Schultz (Michele Renzullo).
Quale che sia la forza di Cabaret, a distanza di alcuni decenni dalla prima messa in scena, è ben chiaro fin dalle prime battute. La capacità di raccontare una storia dentro una storia, utilizzando un linguaggio che potrebbe inizialmente stridere con la drammaticità del tema, ma che invece si rivela essenziale per raccontare quelli che sono stati gli albori dell’avvento del nazismo in Germania.
Il mancato matrimonio tra Fraulein Schneider ed Herr Schultz a causa del suo essere ebreo, rende facilmente l’idea della paura che inizia a serpeggiare tra alcuni tedeschi. Una paura che tenta di essere esorcizzata all’interno del Kit Kat Klub, dove il Maestro di Cerimonie (Giampiero Ingrassia) non manca di far comprendere il suo punto di vista con l’ironico quanto graffiante passo a due con una donna-gorilla in difesa degli ebrei e della libertà di amare a prescindere dalla religione.
E se da un lato la storia politica invade la quotidianità dei tedeschi e non, dall’altro la nascita e la fine dell’amore tra Sally e Cliff, ricalibra i toni di denuncia del musical per ritornare brevemente su binari più romantici e struggenti. Un incontro casuale, un aborto, un figlio comunque desiderato, il desiderio di scappar via, il tragico epilogo. Binari che nuovamente si separano, chi resta a Berlino, chi torna a casa. E nel mentre le parole di Cliff scivolano veloci sulla carta, raccontare una storia, un posto, una città, per tentare di cristallizzare quel periodo e quei ricordi in modo indelebile sulle pagine di un libro iniziato e forse infine terminato.
Il regista Saverio Marconi riporta finalmente sulle scene quello che sicuramente è, nell’immaginario collettivo, uno dei musical più noti e apprezzati. Il testo è quello di Joe Masteroff con le musiche di John Kander e le liriche di Fred Ebb.
Ancora una volta Marconi non delude. Splendide le scene e ancor di più i cambi delle stesse, un ritmo costante che pervade tutta la rappresentazione. E un cast che risulta brillante, intenso e affascinante.
Su tutti si erge Giampiero Ingrassia, un Maestro di cerimonie ambiguo, malizioso e seducente, ma allo stesso tempo capace di far vibrare corde emotive che vanno dalla comicità al dramma in poche battute. Ingrassa illumina letteralmente il palco con quella rara capacità di far focalizzare su di sé l’attenzione del pubblico in sala compiendo anche solo dei semplici passi.
Impeccabile Giulia Ottonello, elegante interprete di una Sally Bowles capace di spacciarsi femme fatale quanto ingenua donna in erba. Doveroso sottolineare le sue innegabili doti canore, capaci di suscitare più di una volta applausi a scena aperta.
Unico neo di uno spettacolo di altissima e pregiata fattura è forse l’elemento romantico che pecca di passione e credibilità. È evidente l’assenza di un travolgente trasporto che ci saremmo aspettati tra i due protagonisti, il cui rapporto rimane superficiale a causa forse di una performance debole di Cliff/Mauro Simone, la cui tonalità di voce e gestualità rimangono sempre estremamente piatte e controllate.
Considerando l’amore che dovrebbe unire i due protagonisti, ci si aspettava forse una maggior passionalità sul palco, ma che invece rimane sempre inespressa.
Una menzione speciale per la scelta di un finale maggiormente drammatico rispetto al canonico, e già presentato da altri revival del musical. Una scelta chiara adottata evidentemente per calcare maggiormente l’aspetto di denuncia che lo spettacolo reca in sé e per non dimenticare quello che fu poi il risultato dell’avanzata del nazismo.
Quasi totalmente assente l’aspetto legato all’ambiguità sessuale sia del Maestro di Cerimonie che di Cliff, al contrario di altri revival del musical (o dello stesso film). Sarebbe stato interessante vederlo raccontato nel perfetto meccanismo presentato da Saverio Marconi, e forse la sua assenza risiede nella precisa volontà di presentare il musical nella sua versione più classica e con l’intento di voler volutamente focalizzare l’attenzione sul contesto e sul dramma storico entro il quale risuonano le musiche e i balli del Kit Kat Klub.
Resta così non solo quel finale amaro, duro e toccante, ma soprattutto quell’insegna sbilenca a tratti illuminata, ora quasi del tutto crollata. C’era un cabaret… c’era una città viva, c’era la musica e forse c’era anche un amore. “Life is cabaret” si cantava, ma non più o almeno non sotto il cielo della Berlino di quelli anni. Non resta che una parola: “Auf Wiedersehen”.
Cabaret
con Giampiero Ingrassia
regia di Saverio Marconi
Teatro Brancaccio, Roma
fino al 18 ottobre
teatrobrancaccio.it