L’Egitto non conosce pace
Continua l’instabilità interna nel paese africano. Tra gli ultimi attentati di questa settimana e l’arresto di attivisti e giornalisti, Il Cairo fatica a trovare un equilibrio che consolidi il potere militare. Particolarmente importanti le elezioni parlamentari che si terranno prima della fine dell’anno
di Emanuele Martino
Sono 32 i morti dei tre attentati avvenuti il 24 ottobre nei pressi di Sheikh Zuid, nella Penisola del Sinai. Il secondo attacco ha registrato il passivo più pesante, con 19 militari deceduti per un’autobomba che ha fatto breccia in un checkpoint dell’esercito facendosi saltare in aria.
Immediata la reazione del Consiglio di Difesa egiziano, che ha imposto tre mesi di coprifuoco in tutta la parte nordest della penisola a cui hanno fatto seguito le parole di Al-Sisi. Il Presidente ha subito condannato l’accaduto promettendo di mettere un freno alla deriva islamista storicamente presente in quella regione, puntando il dito contro i diversi gruppi di miliziani che combattono in Libia e che sono ostili al regime egiziano. Da tempo infatti l’esercito di Sisi addestra le forze militari fedeli al governo di Tripoli.
Pochi giorni prima davanti all’Università del Cairo un ordigno è esploso, causando undici feriti e gettando la città nel panico: a rivendicare l’attentato è il gruppo di Ajnad Mistr, organizzazione militante islamista che fin dalla deposizione di Morsi conduce periodicamente attacchi contro le forze dell’ordine e l’esercito colpevoli di sopprimere nel sangue le varie proteste che si susseguono contro il regime.
I tumulti che vedono opposte le forze militari alle istanze islamiche, portate avanti in larga parte dal mondo studentesco, hanno portato inoltre alla condanna a tre anni di prigione ben 23 attivisti accusati di aver organizzato illegalmente manifestazioni contro la presidenza. A questi naturalmente si aggiunge la vicenda dei giornalisti dell’emittente Al Jazeera ancora dietro le sbarre.
Per quanto riguarda l’attacco terroristico nel Sinai, come in ogni regime militare che si rispetti, Al Sisi ha vagheggiato l’ipotesi di un coinvolgimento straniero dietro l’attentato – non facendo né nomi né riferimenti, poiché il riconoscimento di un nemico è essenziale per garantire stabilità e sicurezza. Ma questa sicurezza ormai mostra più di qualche falla: se in proiezione estera l’ex generale cerca legittimità e rafforzamento del proprio ruolo in Medio Oriente, tra le mura domestiche le proteste si fanno sempre più numerose e gli attentati che hanno come obiettivo l’esercito per le strade non sono più casi isolati. Il consolidamento del potere militare, tramite il referendum costituzionale del gennaio 2014 e le presidenziali di maggio, è andato di pari passo con una violenta repressione di ogni tentativo di dissenso.
Difficile immaginare un miglioramento, in futuro: saranno fondamentali in questo senso le elezioni parlamentari la cui data è ancora da fissare, ma che si terranno prima della fine dell’anno.
Il voto sarà cruciale per mettere alla prova la capacità delle forze islamiche moderate, l’unica opposizione plausibile contro l’influenza politica militare, di costituirsi come formazione omologante ed inclusiva. I partiti vicini alla fuorilegge Fratellanza Musulmana, marginalizzati dall’ascesa di Al- Sisi, ritorneranno in campo per le elezioni e i diversi giochi di alleanze potrebbero porre un freno alla deriva autoritaria del Presidente. Sempre che le armi lo permettano.