Formula 1, goodbye aussie boy: le 12 fatiche di Mark Webber, tra sfortuna e riscatto
Con il secondo posto in Brasile l’australiano della Red Bull chiude a quota 9 vittorie e 42 podi in 215 gare e passa ufficialmente alla Porsche, con cui l’anno prossimo si cimenterà nel mondiale Endurance. Ripercorriamo la sua ultradecennale avventura tra incidenti incredibili, riscatti, overdosi di sfortuna, sospetti, imprese e… quella volta che il rugby gli salvò la carriera
di Paolo Pappagallo
su Twitter @paul_parrot
A vederlo sfrecciare così, casco slacciato e capelli al vento per l’ultima passerella sotto la pioggia di Interlagos, viene spontaneo chiedersi come la “famiglia” Ecclestone, nell’accezione più motoristicamente ampia possibile del termine, possa privarsi tanto facilmente di uno come lui, magari a favore di qualche giovanissima one-hit wonder dei motori con poco talento e tanti petroldollari mischiati nello stesso serbatoio.
Poi lo ammiri sul podio, mentre il collega e compagno di squadra Sebastian Vettel, con la deferenza riservata al congedo di un veterano, gli concede il passo d’onore al momento delle interviste di rito, e il concetto sembra risaltare ulteriormente lampante e cristallino: uno come Mark Webber, duro e puro tanto dentro quanto al di fuori dalla pista, al mondo della Formula Uno mancherà eccome.
Eppure il 37enne di Queanbeyan, città manifatturiera del Nuovo Galles del Sud, ad una manciata di chilometri da Canberra, ha ancora moltissimo da dare al mondo dei motori: ne sa qualcosa la Porsche, che non ha perso tempo nell’offrirgli un posto nel mondo delle ruote coperte affidandogli una vettura prototipi con cui affrontare le Endurance Series e la 24 ore di Le Mans, 15 anni dopo il primo e ultimo gettone aussie alla maratona automobilistica in terra francese. Una seconda vita per Webber dopo le 12 stagioni trascorse nel circus, annate ricche di soddisfazioni altalenanti e spesso condite da incidenti spettacolari, contrattempi tra l’incredibile e il bizzarro, rimonte, grattacapi, cadute libere e proverbiale dimostrazioni di forza d’animo. Un protagonista comunque mai banale, in un mondo spesso condito da varie overdose di banalità tecnica e retorica “champagne”.
Cuore ovale – E dire che il buon Mark, all’ombra delle monoposto più famose nel mondo, forse non ci sarebbe mai arrivato senza l’aiuto del rugby. O meglio, senza l’apporto fondamentale di una stella della palla ovale, di gran lunga lo sport più seguito e venerato agli antipodi del globo terracqueo. Il papà di Webber, Alan, cresce infatti come pilone nella squadra di Queanbeyan a inizio anni ‘80, gomito a gomito con il talentuosissimo estremo David Campese, destinato a diventare una vera e propria leggenda dei Wallabies, la celeberrima nazionale della terra dei canguri. Webber Sr. nel frattempo opta per l’altra sua grande passione, i motori, aprendo un negozio di motociclette, destinato ad influenzare inevitabilmente i primi passi del piccolo Mark. Dai primi anni ’90 inizia tutta la trafila per il più giovane dei Webber, dal motocross ai kart con la conquista del titolo regionale, il campionato australiano di Formula Ford prima e la sua corrispondente versione europea poi. Il talento non manca, i soldi sì. Problemi di sponsor che, nel 1997, sembrano stroncare la carriera del giovane australiano nel suo primo anno al volante nel campionato britannico di Formula 3, ed è qui che Campese piazza una delle sue mete più belle e generose: corre in aiuto dell’amico Alan e finanzia di tasca propria il 21enne Mark, permettendogli di concludere la stagione. L’anno dopo ci pensa la Mercedes, con un lauto contratto per il campionato Gran Turismo, a rimettere la situazione finanziaria di casa Webber sulla retta e meritata via: è l’antipasto all’approdo in Formula Uno, preceduto da due brillanti annate, sempre a podio, in Formula 3000 ad inizio nuovo millennio.
La mossa del giaguaro – L’anno zero dell’australiano nel circus delle monoposto è il 2002, quando ad offrirgli il primo volante ufficiale, dopo un’esperienza da collaudatore nell’ultima stagione della Benetton, è Paul Stoddart, team principal della Minardi e artefice dell’esordio di Webber anche in Formula 3000, sotto la European Arrows. E se il buongiorno si vede dal mattino, raramente a Faenza sono abituati ad albe così splendenti: Mark con la sua PS02 fa centro al primo colpo, per giunta nel Gran Premio di casa a Melbourne, conquistando – anche grazie a numerosi ritiri – il quinto posto in gara e i relativi due punti, primi e ultimi in stagione per la scuderia romagnola, dopo anni di digiuno. La vettura è quello che è, ma le prestazioni di Webber passano tutt’altro che inosservate e, puntuale, arriva l’upgrade nella stagione successiva: la chiamata è della Jaguar, mezzo scalino più in alto nelle ambizioni di classifica, pur con enormi problemi in materia di affidabilità. E quando non ci si mette la macchina – ben 13 ritiri in due stagioni – è la sfortuna a minare le sicurezze del driver australe, come nel GP del Brasile 2003 , quando l’aquaplaning trasforma il rettilineo dell’Arquibandas in una pista da pattinaggio e della Jaguar R4, con il numero 14, non resta che la cellula di sopravvivenza dopo l’impatto con le barriere. A fine 2004 i risultati parlano di 24 punti complessivi (rispettivamente 17 nel primo anno e 7 nel secondo) nell’arco del biennio con il “Giaguaro Verde”. Tempo di rimanere in Gran Bretagna ma spostandosi più a nord, in Oxfordshire, dove ad attenderlo c’è sir Frank Williams, con una proposta finalmente nobile, competitiva, stimolante: l’occasione perfetta per la svolta tanto attesa, tanto più che “Web” eredita il volante di Juan Pablo Montoya, genio e sregolatezza, a sua volta trasferitosi da poco in McLaren.
Williams vuol dire fiducia – Il problema è che la Williams FW27, motorizzata BMW, riesce a mettere in bacheca un unico alloro a fine stagione: quello di monoposto più deludente del 2005. Partiti con ambizioni di titolo, Webber e il compagno di squadra Heidfeld si trovano a guidare una vettura lenta, inaffidabile, inguardabile nei circuiti veloci, seppur discreta sui tracciati più lenti: il podio conquistato a Montecarlo, il primo della carriera per Mark, alle spalle di Raikkonen e proprio di Heidfeld, è il capolavoro di un’annata in cui pure la sfortuna si accanisce in tutti i modi sul team britannico. Squadra e motoristi BMW arrivano ai ferri corti, fino al divorzio di fine stagione dopo una classifica costruttori al limite dell’impresentabile: il problema è che la fornitura di motori Cosworth scelta da Sir Frank per il 2006 sembra essere la classica aspirina per il malato terminale. Webber nel contratto ha una clausola che gli consentirebbe di lasciare il team in caso di cambio di propulsore, ma si fida e decide di rimanere tra le fila della scuderia di Grove. Risultato? La stagione è un’ecatombe di ritiri – ben 11 a fronte di sole 7 gare portate al termine – e la FW28 tradisce l’australiano anche negli sparuti, possibili momenti di gloria, preferibilmente in zona podio. Un incubo, tanto che nel circus viene paragonato a Rubens Barrichello, più per la capacità di catalizzare su di sé la mala suerte che per le mere doti al volante. Colpa di un destino cinico e beffardo, un fato forse conscio della propria crudeltà, al punto da presentare all’ aussie driver l’occasione della vita, alle soglie dei 32 anni, sotto forma di una “bevanda energetica”, all’esordio in Formula 1, pronta a ritagliarsi il suo ruolo nella leggenda delle monoposto.
Red Bull con sorpresa – L’ultimo atto, lungo un lustro, è quindi quello con l’intrigante progetto del magnate austriaco Dietrich Mateschitz, il “Signor Red Bull”, affidato alle sapienti mani del giovane guru Chris Horner. Le fondamenta su strada sono quelle della vecchia Jaguar,un ritorno alle origini per Webber, all’inizio malsanamente anche in termini di risultati: il primo score di rilievo della stagione 2007 arriva appena al decimo GP, al Nurburgring, ed è finalmente il secondo podio in carriera, alle spalle della McLaren di Alonso e alla Ferrari di Massa. In mezzo, nella gara in Giappone, un episodio degno di una benedizione urbi et orbi: l’australiano parte bene, pur debilitato da una forte gastroenterite, sfrutta la pioggia portandosi in seconda posizione, ma viene tamponato addirittura dietro la safety car dalla Toro Rosso di un giovanissimo Sebastian Vettel, dovendosi ritirare a metà gara. L’anno seguente, confermato insieme a Coulthard, la macchina si conferma altalenante nel passo gara, ma la svolta è dietro l’angolo: con la stagione 2009 arrivano non solo il prodigio Vettel, ma anche le prime gioie e una macchina finalmente pronta per i piani altissimi della classifica costruttori. Sono passati più di 7 anni dall’esordio nel circus, e a 33 anni suonati Mark Webber conquista la prima pole position e la prima vittoria in carriera in Formula 1, nel GP di Germania sul velocissimo tracciato di Hockenheim. A fine stagione saranno 7 podi in 17 gare, la seconda vittoria in Brasile e il quarto posto finale nella classifica piloti. Tutto per il meglio? Forse, perché nel 2010 esplode tutto il talento del giovane compagno di squadra tedesco, che conquista il primo titolo mondiale a soli 22 anni, nonostante l’australiano suoni la carica con ben 4 vittorie, 10 podi e un terzo, ottimo posto in classifica costruttori. In mezzo la solita parentesi tragicomica con uno spettacolare incidente al Nurburgring, nel quale decolla sopra la Lotus di Kovalainen, si ribalta e atterra sul roll-bar per poi capovolgersi un’altra volta, per fortuna anche stavolta senza conseguenze.
Mark vs. Resto del Mondo – Il resto è storia dei nostri giorni, con il triplete del “cannibale” teutonico inframmezzato dalle ormai storiche vicissitudini del compagno australiano. Alcuni episodi assumono contorni quasi da noir, specie viste le persistenti noie tecniche e meccaniche alla vettura lamentate a più riprese dall’aussie, mentre il golden boy tedesco fila veloce e snello al volante della vettura gemella. I sospetti di ostracismo crescono, alimentati dai risultati (1 vittoria e 10 podi nel 2011, 1 successo e 4 piazzamenti nel 2012) a parità di vettura, fino all’apoteosi, in Malesia, nel secondo appuntamento dell’annata 2013: Webber è in totale controllo della gara e il team ordina a Vettel di rispettare le posizioni e non tentare inutili attacchi al compagno di scuderia. Tutto inutile, il tedesco se ne frega e va a vincere a Sepang, rischiando un incidente diplomatico non da poco con il povero Mark. Adesso basta, è rottura. Già in estate arriva il comunicato, che in quanto a tempistiche spiazza perfino la Red Bull, costretta a prendere atto del pilota. Addio, vecchio leone. Nel mentre arrivano però altri sette podi, talvolta in condizioni proibitive, perché il “sopravvissuto” Webber, a 37 anni, puoi ancora provare a piegarlo ma, come la sua carriera insegna, giammai a spezzarlo.
E ora la storia è pronta a continuare, su altri palcoscenici, per nuovi atti, nuovi trionfi e chissà, magari nuove perle di tragicomica surrealtà. Ma Mark Webber da Queanbeyan insegna: chi la dura la vince. E chi la vince, guida sempre e solo per arrivare davanti a tutti.