Tra schiavitù ed equo compenso: che fine ha fatto il mestiere più bello del mondo?
Professionalità, passione e sacrificio. Ma anche sfruttamento, stipendi da fame e (sempre meno) diritti: ecco come si mette a rischio la libertà di stampa
di Guglielmo Sano
Una volta il giornalista e scrittore Massimo Fini disse: “Chi, oggi, vuole fare il giornalista, dimostra di non avere la più grande dote che, un giornalista, deve avere: il fiuto”. A parte la boutade, provocatoria e volutamente paradossale, la realtà delle professione non è poi così diversa, non è poi così lontana da quella indicata in maniera estrema dalla battuta. Negli ultimi tempi lo “stato dell’arte” è salito nuovamente agli onori della cronaca grazie a un gruppo su Facebook, quello del coordinamento “Firme Precarie”.
Il caso, in breve: sul sito del Comune di Arconate, Provincia di Milano, appare un bando per la selezione di un “addetto stampa”. Per un giornalista lavorare per un’amministrazione, spesso, significa trovare un approdo lavorativo sicuro, a tempo indeterminato. Il bando in questione, invece, propone un contratto di 9 mesi, reperibilità nei giorni festivi e nelle ore serali, una lunga lista di mansioni: dalle rassegne stampa periodiche all’ideazione di depliant, brochure, manifesti e locandine – un contratto a progetto, sostanzialmente. Inoltre il vincitore del concorso si impegna a cessare ogni tipo di collaborazione con blog, siti e testate giornalistiche per dedicarsi totalmente alla nuova posizione. Paga mensile 300 euro lordi. Mentre si sprecavano i commenti, rabbiosi o ironici, sul web: “Firme Precarie” si è messa in moto chiedendo spiegazioni all’ordine dei giornalisti e alla FNSI, il sindacato unitario dei giornalisti.
Nel frattempo Mario Mantovani – sindaco del paesino di 6000 abitanti – di fronte alle polemiche riguardanti il compenso e la quantità di lavoro richiesto, si è affrettato a dichiarare che “è stato un errore nella redazione del bando” – senza peraltro specificare di che natura. Il Vice-sindaco, Silvana Ceriotti, invece, ha semplicemente respinto le critiche al mittente, sostenendo che il lavoro è “essenzialmente poco” e d’altronde, ha aggiunto, “questo è quello che abbiamo a disposizione in un momento di crisi per tutti i Comuni”.
Lo “sfruttamento” addebitato alla “crisi”, in effetti, non si limita al comune di Arconate: in Provincia di Perugia, nel comune di Corciano, si offrono 500 euro per redigere comunicati stampa ma anche per fare il fotografo – neanche l’ombra di rimborsi per spostamenti e telefonate. Anche peggiore la situazione a Porcia, in Friuli Venezia-Giulia: 541 euro al mese in “rate posticipate e previa verifica del lavoro svolto”. A Udine, chi partecipava al bando indetto dall’amministrazione comunale, non sapeva neanche l’entità del compenso offerto, nel bando si precisava però che l’effettivo stipendio in ogni caso “resta subordinato alle disponibilità dell’ente”.
Per Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti, “la schiavitù esiste ancora”. Non si può dargli torto, soprattutto, considerando i dati che, il gruppo di giornalisti precari di Roma riuniti nel coordinamento “Errori di Stampa”, pubblicava già un anno fa in base al primo auto-censimento sul settore: “I numeri emersi delineano una situazione a dir poco allarmante: per mettere insieme mille euro al mese, i duemila giornalisti precari impiegati in giornali, – ma anche agenzie, radio, televisioni e uffici stampa – della capitale dovrebbero lavorare in media quaranta giorni.”.
Secondo i dati raccolti dai bravi giornalisti cresciuti a “pane e cronaca di Roma”: un pezzo per La Gazzetta dello Sport vale tra i 5 e i 40 euro, se si collabora con Il Messaggero si intascano tra i 10 e i 36 euro, La Repubblica paga un compenso mensile ai suoi collaboratori che oscilla tra i 400 e gli 800 euro. Il Sole 24 ore paga 90 centesime a riga.
Stessa cosa vale per le agenzie di stampa: un lancio Ansa vale 7 euro, uno di Agi in media ne vale 4, “ma attenzione a puntare il dito solo sugli editori privati: anche mamma Rai negli ultimi anni sembra essere diventata sempre più matrigna (in particolare verso le lavoratrici in gravidanza) negando di fatto un contratto giornalistico a centinaia di persone impiegate in programmi di informazione.”.
Sembra evidente che, se la retribuzione è un miraggio, lo sono anche il diritto alle ferie e ad un minimo di turnazione. A questa situazione dovrebbe far fronte la legge 233 del 2012 ”sull’equo compenso” che, in pratica, dispone che non verranno più erogati fondi pubblici agli editori che non retribuiscono i loro collaboratori in base al lavoro svolto, in palese contrasto con l’articolo 36 della Costituzione che garantisce al lavoratore: “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”.
Al momento, però, la legge è bloccata: si aspetta che venga nominato un membro della Fieg, il sindacato degli editori, in seno alla commissione che dovrebbe redigere il “giusto ed equo” tariffario. Di sfruttamento ne sa qualcosa anche Giovanni Tizian, penna della Gazzetta di Modena, de L’Espresso e blogger per l’Huffington Post, che per i suoi articoli sugli affari loschi della ‘ndrangheta, che gli valsero l’assegnazione della scorta, in Emilia Romagna prendeva 4 euro a pezzo.
Come si può pretendere che un professionista si occupi di pericolose questioni come la criminalità organizzata, se non ha un compenso o ne ha uno ridicolo, se non viene mai assunto, se non gli si mette a disposizione un rimborso almeno per le telefonate, necessarie per un’inchiesta, per la benzina, per gli spostamenti dovuti alle interviste, ma anche una protezione legale, così che si possano nominare “illustri signori dediti al malaffare”? Solo la passione e la determinazione di Giovanni Tizian ci permettono di apprezzarne le scoperte.
Ma quanti Tizian stiamo perdendo, a causa del precariato, durante questo vero e proprio attacco alla libera stampa?