Renzi Returns: tutte le incognite sulla via per Palazzo Chigi
Alleanze e nuovi assetti dipenderanno soprattutto dalla legge elettorale con la quale andremo a votare, ma c’è già un punto fermo: nessun apparentamento con gli scissionisti
di Marco Assab
su Twitter @marcoassab
Chi definisce “farsa” le recenti primarie del Partito Democratico di domenica scorsa commette un errore di analisi. 1.848.658 cittadini che vanno a votare, esercitando un diritto fondante di ogni democrazia, non sono una farsa. È vero che Andrea Orlando e Michele Emiliano il ruolo della spalla lo potevano recitare un po’ meglio, con più grinta, determinazione e credibilità, ma l’esito scontato (e un tantinello noioso) di queste primarie non è sufficiente per definirle farsa. Esito scontato sì, ma resta il fatto che il Pd è l’unica formazione politica in Italia ad eleggere con schede ed urne il proprio segretario. Non tanto dunque “le primarie Pd”, quanto l’istituto in sé delle primarie meriterebbe più rispetto, insieme all’auspicio che sia adottato da tutte le altre compagini.
Matteo Renzi ha vinto contro avversari incapaci di contenere la sua esuberanza, di fare ombra alla sua leadership. Ma il non aver avuto avversari all’altezza è forse colpa di Renzi? L’esito scontato di queste primarie è una colpa da addebitare al Partito? Meriterebbe forse una riflessione il fatto che la minoranza non sia stata capace di esprimere candidati più forti, e che una buona parte di essa abbia deciso, anziché contrastare l’ex sindaco di Firenze nell’unico modo possibile ed utile, ovvero candidandosi contro di lui, di abbandonare il ring. Se i pugili più agguerriti, anziché lottare, abbandonano il ring, appare ovvio che il campione in carica avrà vita facile e che l’esito del match sarà scontato.
Dal 2013 sono cambiate tante cose. Il nuovo corso che Renzi è chiamato ad intraprendere non sarà semplice. Sebbene il segretario democratico possa contare su un Pd più unito intorno alla sua figura, e quindi lavorare con un fronte interno più calmo e meno recalcitrante, incognite di non poco conto gravano sulle scelte che il Partito dovrà fare in vista delle elezioni politiche. Di date, chiaramente, non se ne parla, non avendo ancora il Parlamento dato alla luce la tanto agognata legge elettorale. Ma proprio dal Pd, dalla maggioranza, ci si attende la mossa decisiva per ultimare questa tela di Penelope (vedi Odissea). “Le regole del gioco si scrivono insieme”, ha sempre affermato Renzi. Bello, in linea di principio, ma le posizioni al momento appaiono distanti. Il segretario Pd sembra tendere verso il maggioritario, Silvio Berlusconi ha ribadito in più occasioni di non considerare tale sistema un’opzione percorribile adesso in Italia dove, con l’emergere del Movimento 5 Stelle, si è venuto a consolidare un sistema tripolare.
Allo stato attuale delle cose, per Berlusconi il maggioritario porterebbe al governo una minoranza, con grave rischio per la democrazia. Analisi corretta, tuttavia: 1) qualcuno dovrà pur governare 2) le larghe intese hanno stancato 3) 64 governi in 70 anni possono bastare, al Paese serve stabilità, che fa rima con credibilità. Senza dubbio il maggioritario pone dei problemi di rappresentatività, così come il proporzionale puro equivale ad instabilità e governi di coalizione. Si trovi dunque una sintesi che coniughi il bisogno di stabilità con quello di rappresentatività. In Germania, ad esempio, il Bundestag (598 seggi) viene eletto per metà con il maggioritario (collegi uninominali), mentre per l’altra metà con il proporzionale, mediante un sistema piuttosto complesso. Si potrebbe percorrere altresì la via di un proporzionale corretto con premio di maggioranza (circoscrizioni plurinominali e liste aperte). Insomma non mancano le opzioni.
Ciò che manca forse è la reale volontà di andare al voto prima della fine naturale della legislatura, prevista per il 2018. La politica italiana, per ora, sta alla finestra ad osservare l’esito del ballottaggio francese (tra due giorni) ma, soprattutto, quello delle elezioni tedesche previste per il 24 Settembre (Schulz vs Merkel). Sembra dunque prematuro e difficile argomentare di alleanze prima ancora di sapere con quale sistema si voterà, ma alcuni punti fermi Renzi li ha già messi: nessun apparentamento con gli scissionisti, dunque con i neonati Democratici e Progressisti. Difficile anche credere che si possa raggiungere un’alleanza con Sinistra Italiana. Più percorribile invece la via che porta a Giuliano Pisapia, con il suo progetto “Campo Progressista”, del quale però ancora ci sfugge l’esatta fisionomia ed il reale peso.
E se nulla si concretizzasse anche con l’ex sindaco di Milano, al Pd non resterebbe che proseguire con Area Popolare, con Angelino Alfano, ma quali ripercussioni potrebbe avere sull’elettorato Pd il consolidamento di questa alleanza? Non buone. Perché l’apparentamento con Ap, nell’ottica delle larghe intese, è sempre stato percepito da elettori e militanti democratici come qualcosa di temporaneo, di necessario alla formazione di un governo stabile per traghettare il Paese fuori dalle secche della crisi. Al di là delle opportune valutazioni ideologiche e politiche, Renzi dovrà riflettere anche in termini di percentuali: Alfano si aggira attorno al 3-4%, ok, ma quanti elettori volterebbero le spalle al Pd in caso di larghe intese ad oltranza? C’è però un’altra opzione ancora: correre da solo. E forse Renzi ci sta proprio pensando, altrimenti perché esprimersi a favore del maggioritario e dei collegi uninominali?
Una risposta
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