Oscar 2015, la preview
Domenica 22 febbraio il Dolby Theatre di Los Angeles ospiterà gli Oscar 2015. Qualche pronostico e tante considerazioni sulle nomination di quest’anno
C’è nell’aria quel vago odorino che anticipa i grandi eventi, lo sentite? Si fa via via più percepibile, con l’avvicinarsi di domenica 22 febbraio, nottata (in Italia) che ci terrà incollati allo streaming ballerino degli Academy Awards numero 87. È di nuovo tempo di Oscar, proprio così. Nemmeno il tempo di gloriarci per bene della vittoria de La Grande Bellezza, siamo già una storia vecchia. Come ogni anno, va fatto un “bilancio” sui nomi dei partecipanti, nonché un pronostico sui vincitori, se non altro per il piacere di essere smentiti e quindi lanciarsi in magistrali invettive da bar.
Padrino del Dolby Theatre e re della notte di Los Angeles, sarà quest’anno l’attore Neil Patrick Harris, il cui successo (iniziato con la serie How I met your mother) si è ampliato in breve tempo a macchia d’olio, non solo per le sue virtù recitative, sembra infatti essere sul serio una persona squisita.
Bando alle ciance, zoomiamo sui due grandi favoriti di quest’anno, entrambi con nove possibili statuette sulle spalle, brillano: Birdman (di Alejandro González Iñárritu), pellicola straniante sugli effetti speciali di una mente umana infiammata dal desiderio di fama. E poi c’è Gran Budapest Hotel, sudato ritorno dell’amatissimo Wes Anderson, con gli stessi colori speziati ed una trama decisamente all’altezza delle sue vecchie glorie.
Nella categoria “miglior film” le due punte di diamante affrontano la delicata biografia della storia d’amore di Stephen Hawking (La teoria del tutto), trattata con la giusta dose di dramma e tenerezza disneyana da James Marsh (regista del commovente documentario Man on a Wire, sull’impresa funambolica di Philippe Petit, che camminò in equilibrio su un cavo elettrico tra le due Torri Gemelle). Tuttavia, i veri tratti straordinari sono in questo caso i due protagonisti Eddie Redmayne e Felicity Jones, vincitori morali (se non lo saranno ufficialmente) delle categorie “miglior attore” e “miglior attrice”, per aver reso con tale naturalezza e spontaneità un sentimento che conoscevano solo visivamente.
Boyhood di Richard Linklater (qui la nostra recensione), girato nei 12 anni cruciali della crescita del piccolo Ellar Coltrane (che oggi ha 20 anni), non è un film adatto agli Academy: è stato infatti molto apprezzato a Berlino, vincendo l’Orso d’oro, e si sa cosa si dice sui due festival del cinema (“che non siano mai d’accordo”). La sottilissima morale di Linklater esclude con grande tranquillità la Grandezza che tanto piace agli americani, si riassume tutta nella frase di Patricia Arquette: “Pensavo ci fosse molto di più”, a spiegare che la vita è importante solo se si ha la forza di renderla tale, senza essere preziosa di per sé. Se fosse un mondo giusto vincerebbe per la “miglior sceneggiatura originale”, tuttavia non accadrà.
Tralasciando Selma di Ava DuVernay, che segue da vicino le lotte di Martin Luther King, un film lento che non prende mai davvero l’avvio e che si presenta agli Oscar l’anno dopo la conclamata vittoria di 12 Anni Schiavo e il cui protagonista (David Oyelowo) sbaglia quasi tutto (ma che di certo vincerà per la “miglior canzone”, grazie alla splendida “Glory”), arriviamo al discusissimo American Sniper. La travagliata storia del cecchino pentito ha, come nelle buone tradizioni, diviso la critica: dunque, il primo obiettivo il buon vecchio Clint Eastwood l’ha già portato a casa. Principale accusa è quella sempreverde di essere una sacrosanta “americanata”, e chi più di Bradley Cooper può collaborare a tale giudizio? Certo, una critica simile fatta da un paese che, dopo 15 anni, torna a stringere una statuetta grazie ad un film come La Grande Bellezza, che è un’allegra e condivisa “italianata”, sembra abbastanza ridicola, eppure tant’è.
American Sniper è un film rude, questo è vero, come del resto l’argomento che tratta, e Eastwood si gloria di possedere tutte le caratteristiche del regista “a stelle e strisce”, senza colpevolizzarsene, e dunque? È compito della giuria degli Academy stupirci e non premiarlo, oppure farlo senza sconvolgimenti di sorta, l’importante è regalarci l’ennesima scusa per discutere che, come direbbe Jep Gambardella, nel nostro caso è tutto.
La presenza di The Imitation Game tra i nominati lascia qualche perplessità: il film sull’operazione segretissima salva-Europa di Alan Turing, era sì necessario ma andava curato molto meglio. Neppure l’osannato Benedict Cumberbatch centra il bersaglio, soltanto Keira Knightley riesce per qualche momento a scalfire l’altrimenti dilagante monotonia. Esattamente il contrario accade in Whiplash, il cui ritmo affannato produce adrenalina ed una certa positiva sofferenza nello spettatore. Damien Chazelle trasforma l’Ambizione in un film, proprio come con la Vanità accade in Birdman, e risorgono fiammeggianti i veri motivi per cui si va al cinema: soffrire, piangere e sognare in maniera amplificata, senz’altro un’ottima prova per un regista emergente, che si spera trionferà nella “miglior sceneggiatura non originale”.
Un piccolo plauso va fatto alla perfezione recitativa di Julianne Moore in Still Alice, unica nomination per quello che è invece un ottimo film (sensibilmente migliore di The Imitation Game). La Moore si trasforma grazie all’Alzheimer e si assicura un posto nell’Olimpo attoriale, da lungo tempo governato (saggiamente) da Meryl Streep.
Un accenno anche all’animazione: male la Disney, che con Big Hero 6 non ha convinto, in favore dei più delicati Song of the Sea o La Storia della Principessa Splendente, o nella sospirata vittoria dell’ironia adulta di Boxtrolls, insomma tutto tranne i soliti vecchi “buoni sentimenti”.
Tornando al file rouge della discussione: se è vero che due intuizioni originali fanno un buon film, ma quattro sono sinonimo di Oscar, quest’anno dovrebbe trionfare Birdman. Per la presenza continua della batteria come unico sottofondo musicale, così martellante e così apparentemente tralasciata da rendere perfettamente la rappresentazione fisica di una “fissazione”, che è quella che affligge Micheal Keaton; per i poteri magici che lui crede di avere così convinto di aver scritto una pagina della storia, di meritare un podio laccato in oro; per la facilità con cui Riggan mente a chiunque, godendo nell’essere creduto come se questo valesse a giustificare la sua superiorità nel mestiere di attore (si veda il racconto dell’episodio con le meduse alla sua ex moglie). E ancora, per il momento in cui la figlia (una splendida Emma Stone) gli mostra la carta igienica puntellata a penna e lo informa che un solo strappo equivale al tempo dell’Umanità su questa terra e con cui Riggan si tampona il mento dalle briciole del panino; infine per il trionfante, miserabile, perfetto e folle lungo fotogramma del volo, un momento di sublime tristezza.
Inizia il conto alla rovescia, mettetevi comodi, panem et circensem! A certe buone abitudini, la polemica non potrà mai farci rinunciare, per fortuna.