Peter Greenaway al MashRome: il cinema è morto ma risorgerà
Si chiude in bellezza la terza edizione del MashRome FilmFestival, con una speciale Lectio Magistralis dell’artista e regista Peter Greenaway per l’occasione nell’Auditorium dell’Ara Pacis
di Giulia Marras
su Twitter @giulzama
Quali sono le New Possibilities per il cinema? E’ questa la domanda principale che ha segnato la conferenza-lezione del grande maestro gallese, regista di pellicole fondamentali quali The Baby of Mâcon, Giochi nell’acqua, Il ventre dell’architetto, I racconti del cuscino, già d’avanguardia quando uscirono vent’anni fa.
Il cinema è morto, e non è la prima volta che Greenaway ne dichiara con clamore il decesso, per altro già datato, secondo la sua visione: il corso naturale della cinematografia si arresterebbe definitivamente il 30 settembre 1983. Fino ad allora il cinema era stato un’occupazione passiva, poi il telecomando è entrato in tutti i salotti del mondo. Da quel momento il cinema è diventato proattivo: la nuova religione digitale affida il potere del controllo allo spettatore, che interferisce sull’immagine e che, allo stesso tempo, perde quel controllo e viene posseduto dall’ansia, il sentimento dominante del secolo.
Essere inoltre “visually illiterate in the digital era”, analfabeti visivi in un’epoca d’immagini non è certamente d’aiuto per una stimolazione e creazione costanti di nuovi mondi cinematografici. La nostra educazione occidentale ci ha formati sul testo, sul superamento delle barriere linguistiche, ma per Greenaway l’abbandono della matita a 9/10 anni intacca seriamente lo sviluppo creativo della nostra comunicazione visiva (e cita il maestro Rembrandt: solo perché hai gli occhi non significa che non puoi vedere).
Per fortuna però, non è ancora l’ora di celebrare alcun funerale: il cinema può risorgere, lasciandosi trasformare in altro da sé dalla nuova rivoluzione digitale in atto. Ma innanzitutto l’esperienza audiovisiva deve liberarsi di quattro tirannie che attualmente ingabbiano il cinema e lo uccidono da dentro. Le tirannie elencate dal regista sono: l’inquadratura, come taglio artificiale dell’immagine che non esiste in natura, ripresa dal teatro e dalla pittura, e poi copiata dalla televisione: come Picasso col Cubismo, bisogna ricercare valicare il limite dello schermo unico; il testo, in quanto rende ancora dipendente il cinema dalla libreria e necessaria l’autonomia dalla narrazione standard; gli attori, dei quali esiste ancora “l’idea che possano essere utilizzati come delle prostitute”; e infine le telecamere, che non hanno intelligenza e registrano quello che hanno davanti, senza creare nulla di nuovo. A questo proposito Greenaway cita ancora i suoi personali maestri: Picasso “dipingo ciò che penso” e Ejzenstejn, il quale disse, non senza ironia, che il più grande cineasta era Walt Disney, perché non riproduceva il mondo, ma lo creava da zero.
Il regista ha così approfittato dello spazio dedicatogli dal festival della sperimentazione e del remix mostrando degli esempi di come egli stesso ha provato a sposare la rivoluzione digitale, slegandosi dallo schermo unico e dall’inquadratura chiusa, da un’architettura e una direzione prestabilite – “vorrei che il cinema diventi più attivo per tornare alle sue origini” – tentando di fare del cinema un’esperienza (prima di tutto), simultanea, architettonica, ambientale. Sarebbe necessaria una trasformazione dell’aspect ratio dello schermo, ma probabilmente anche della sua curvatura, della sua opacità. Schermi come orizzonti, schermi da invadere, rifuggendo anche dalla posizione imposta dello sguardo dello spettatore e dalla sua immobilità da seduto.
Un esempio è l’installazione alla Triennale di Milano 2007 con 7 schermi di diverse forme, esplorabili dallo spettatore e esploranti nuove prospettive dell’immagine. O l’esperimento video 92 Atomic Boms on the Planet Earth, dove la simultaneità e la reiterazione delle esplosioni sui diversi schermi rendono la visione consapevole della storia, della moltitudine e della violenza. E’ un cinema d’accumulazione ma anche di critica, nell’epoca dell’informazione.
Ed è sempre in questo senso distruttivo (e rifondativo) del cinema esisitente che Greenaway si interessa anche al concetto di manipolazione dell’immagine e loop – perché anche un film come Casablanca dovrebbe rimanere sempre lo stesso tutte le volte che lo si guarda? : il loop permette allo spettatore stesso di crearsi il proprio film, aprendo un nuovo vocabolario di possibilità artistiche e narrative. The Tulse Luper Suitcase è un progetto multimediale, realizzato prima come film sperimentale, poi come performance con vj, in cui l’ipermediazione e l’interazione tra musica elettronica e immagine dà vita ad un Live Cinema Ad Infinitum.
E ancora il cinema come architettura, come nella recentissima installazione di Lucca, The Towers/Lucca Hubris, una proiezione di storie, surreali e scabrose, ambientate nella città toscana nel Medioevo sulla facciata della chiesa di San Francesco.
Greenaway si rivela essere così uno dei pochissimi registi contemporanei che guarda al futuro del cinema e delle sue possibili declinazioni: ciò senza smettere mai di guardare indietro a quei 8.000 anni di pittura che non possono essere equiparati ai 100 della settima arte. Lo stesso Greenaway fu innanzitutto pittore, ma passò presto alla regia: “il dipinto mi lascia frustrato perché non c’è colonna sonora”. Le sue sperimentazioni con i grandi dipinti non sono mai finite, a partire dalle ispirazioni e dalle riproduzioni operate nei suoi film (si pensi ai riferimenti rinascimentali e barocchi ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante) fino ai giochi delle proiezioni contemporanee su La ronda di Notte di Rembrandt e L’Ultima Cena di Leonardo, con l’alterazione dei colori, delle luci, dei contrasti. D’altronde il regista afferma anche che i veri inventori del cinema furono proprio questi pittori con il loro utilizzo dell’illuminazione, insieme a Velasquez, Caravaggio e Rubens.
Sfuggire all’ansia della narratività del racconto e tornare alla pittura, entrando nei quadri ed uscendo allo stesso tempo al di fuori delle loro cornici limitanti: è questa la ricetta di Peter Greenaway per far rinascere l’arte cinematografica. E annuncia: nel 2016 aprirà l’opera teatrale scritta con Philip Glass su Hieronymus Bosch ed entro il 2020 lavorerà sul Giudizio Universale di Michelangelo.