I primi 40 anni dell’Unesco
E’ tempo di bilanci anche per l’Unesco. Ma come si prospetta il futuro per questa istituzione?
di Alessia Signorelli
40 anni, due mesi e 5 giorni. Questo il tempo trascorso da quel 16 novembre 1972, quando venne approvata e sottoscritta, a Parigi, la Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Mondiale, culturale e naturale dell’Umanità.
Rispondendo al richiamo essenziale che è proprio dell’essere umano, e cioè quello di conservare, proteggere e tramandare ai posteri le testimonianze della propria esistenza (siti archeologici, monumenti e via discorrendo) e, per la prima volta, riconoscendo anche il ruolo basilare giocato dalla natura nella definizione culturale degli individui, l’Unesco ha voluto gettare le basi per una “educazione al patrimonio” più vasta, articolata e complessa, “responsabilizzando” gli stessi Paesi membri (articoli 4 e 5 della Convenzione) sul loro ruolo di conservatori, “curatori” e divulgatori di questo patrimonio globale e inclusivo.
Perché la memoria, per l’uomo, conta. Perché non c’è niente di più inquietante, per un essere umano, dell’idea di non poter “lasciare un segno” del proprio passaggio su questa terra, sia in grande che nel famoso proprio piccolo.
Accantonando le speculazioni pseudo-filosofiche, veniamo a qualche numero.
Dopo quarant’anni, i siti dichiarati patrimonio dall’Unesco sfiorano il migliaio: 745 quelli culturali, 189 quelli naturali e 29 quelli considerati “misti”(nota patriottica: i siti italiani inclusi sono 47); affiancano l’Unesco, nella sua opera, due organizzazioni non governative in particolare: l’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites) per la parte più “culturale”; mentre, quella relativa ai siti naturali è affiadata all’ IUCN(International Union for Conservation of Nature).
I problemi, però, non mancano e sono molteplici: si va dalla distruzione di siti di importanza culturale storica a causa di conflitti e guerre(l’antico suk millenario di Aleppo, in Siria, andato praticamente perduto, e, ancora più indietro nel tempo, tornano in mente i Buddha di Bamiyan, nell’Afghanistan centrale, distrutti da un attentato nel 2001, per nominarne un paio),alle polemiche relative al modus operandi dell’Unesco per quanto riguarda la scelta dei siti da conservare, che gli sono valse le accuse di continuare a portare avanti un ragionamento conservativo di stampo prettamente occidentale – centrico, per arrivare alla mancanza di fondi, dovuta alla presa di posizione degli Stati Uniti, che, con l’ingresso della Palestina tra gli stati membri nel 2011, ha comportato la sospensione del contributo annuo versato di 80 milioni di dollari, corrispondenti ad un quarto dei finanziamenti totali.
C’è chi accusa l’Unesco di non sapere “che pesci pigliare”, di operare secondo il volere di, più o meno nascosti, burattinai politici, di interessarsi troppo dei casi altrui e, tutto sommato, irrilevanti.
In realtà, il problema reale è un altro: l’Unesco non ha alcun reale potere “sanzionatorio”, se non quello (spesso minacciato) di togliere un sito dalla lista – con una conseguente, presunta, ripercussione sull’attrattiva turistica.
Leggendo le varie polemiche più o meno roventi, alcune delle quali mostrano ruggini non vecchie, ma vecchissime, risalenti addirittura ai tempi dell’ammiraglio Nelson, si capisce che, molto probabilmente, si vuole qualcosa di più da un ente che, con tutta la buona volontà, sembra essere partito con le migliori intenzioni, aver fatto del proprio meglio per ottemperare ai propri doveri e al giuramento posto con la Convenzione, ma che, negli ultimi anni, abbia incontrato più problemi del previsto.
D’altra parte, però, visti i cambiamenti continui e repentini ai quali stiamo assistendo, allo scoppiare di conflitti in zone dalla preziosa eredità naturale e storica, dall’avanzare di una crisi vorace, che sacrifica, tra le altre, cultura ed ambiente, è lecito chiedersi se non sia tempo, per l’Unesco, di mettersi in discussione; non si tratta di essere ciechi a quarant’anni di, comunque, “successi”, ma non si può essere parimenti ciechi alla necessità di un “ripensamento” e ridimensionamento dell’Unesco, del suo ruolo e delle sue facoltà.