Nell’Olimpico delle proprie Divinità
Dopo il concerto a San Siro, ecco i Depeche Mode sabato 20 luglio allo stadio Olimpico di Roma. Uno spettacolo che fa trasparire puntualmente la loro intrigante essenza, intatta da trent’anni
di Valentina Palermi
Lo confesso. Mi trovo in una situazione davvero difficile. Oggi non si tratta solo di parlare di un bel concerto o di una performance sensazionale in maniera più astratta e oggettiva possibile… È una questione personale! Prima di tutto, perché se non fosse per i miei amici, stasera non mi troverei qui. Saranno magari i trent’anni che si avvicinano, ma il carisma che Dave Gahan sprigiona sul palco lo apprezzi (e ti stende) come un bicchiere di vino pregiato e corposo. E poi, perché i Depeche Mode sono tra i miei “Personal Jesus” artistici da sempre.
Come eleganti e mannered padroni di casa, puntuali (nel vero senso della parola) con “Welcome to my world” i DM invitano le migliaia di persone all’interno dello Stadio Olimpico di Roma e seguirli in questo viaggio lungo poco più di due ore, attraverso i loro successi storici e i brani contenuti in Delta Machine. Alle loro spalle, scenografici grafismi mettono insieme il vecchio di “Barrel of a gun” e il nuovo di “Soothe my soul”– coi triangoli incastrati a rappresentare le iniziali del loro nome e di quelle dell’ultimo album –, mescolati tra loro e tuttavia sempre futuribili. Ai lati del palco, come grandi occhi – e orecchie – gli schermi amplificano tutto quello che avviene on stage e nella lingua metallica che si getta tra i fedelissimi del sottopalco, accalcati. “A pain that I’m used to”.
Tra le espressioni musicali – e il trucco – del rock più oscuro di “Black Celebration” (che da anni non veniva inserita in scaletta), come un “Angel” Dave (nel suo gilet dalla schiena prima pesca, poi oro, poi nera) e Martin Gore, allargano a loro modo le braccia al pubblico, spiccando il volo verso l’“Heaven”. Per avvolgerli, in danze leggere e veloci e sensuali, per “A Question of Time” (compagna l’asta del microfono) che Gahan sfacciatamente accenna – anche su “Policy of truth” – per confermare al mondo il suo istrionismo e far letteralmente uscire di testa lo stadio. O per cullarci ed emozionarci, come Martin – the master of music e servant delle parole –, che con la versione acustica di “The child inside” e “Shake the disease” rende lucciole i migliaia di schermi luminosi dei cellulari in aria a riprenderlo, e campanelli il battere delle mani del pubblico, accompagnato come sempre anche da Andrew Fletcher.
Una complicità tra i tre che si manifesta durante “Precious”, con Dave e Martin spalla a spalla, fianco a fianco, e che coinvolge i migliaia lì, attraverso un “thank you” rivolto al pubblico oppure un sorriso, che fa trasparire tra le note la reale soddisfazione di essere in quel momento di fronte a noi. Che quasi vorremmo non mandarli via, pronti a chiedergli di restare.
“Things get damaged”, ma non lui. Dave Gahan è inarrestabile, e incita tutti a seguirlo cantando “try walking in shoes”, con lo stadio che risponde, anche se solo godendoselo con lo sguardo. Sguardi che godono anche della perfetta cornice artistica delle immagini di Anton Corbijn – già conosciuto con gli U2 –, con i Depeche Mode che si prestano al ruolo di attori per sequenze e fermi immagine. Queste si alternano tra un brano e l’altro, facendoci tornare indietro nel tempo con “Enjoy the silence”, “Halo”, “I feel you”.
La commovente “Secret to the end” è l’inizio di un triste “Goodbye”.
Una scarica di energia e adrenalina continua, che “Should be Higher” e per questo si instilla in crescendo sui pezzi in scaletta, per esplodere poi insieme alle luci. E tu non puoi che saltare e urlare “I just can’t get enough”, rigorosamente in technicolor.
Anche se a malincuore, è giunto in momento di “take a ride with my best friend”. Tornando a casa, dopo “Never Let Me Down Again”, senza toccare il terreno con i piedi.
Perché per due ore, all’Olimpico abbiamo assistito a qualcosa di divino. Questo è il mondo dei Depeche Mode.
…”Questo è il mondo dei Depeche Mode” hai scritto alla fine del tuo stupendo articolo. Questo è pure il mio mondo…quello dei miei unici ( musicalmente parlando) e adorati depeche mode
…da quel lontano 1981, da quella “just can’t get enough” che risuonava nelle mie orecchie in 5a elementare… e io, come milioni di fans non ne abbiamo avuto ancora abbastanza