Brasile, tensioni per il rincaro del diesel
I camionisti hanno dato il via ad un lungo sciopero che ha coinvolto, poi, il resto della popolazione: situazione rientrata ma permane il malcontento per Temer. A cinque mesi dal voto
È durato 11 giorni lo sciopero che ha paralizzato il Brasile e che è costato la testa a Pedro Parente, Presidente della compagnia petrolifera nazionale Petrobras, costretto venerdì scorso a rassegnare le proprie dimissioni non ritenendo più positiva la propria presenza al vertice. Al suo posto è già subentrato Ivan Monteiro.
Dal 20 al 30 maggio migliaia di camionisti brasiliani si sono fermati e, con loro, l’intero Paese: i loro mezzi pesanti si sono bloccati in 534 punti nevralgici della rete autostradale dei 25 Stati, rallentando il transito e, soprattutto, riducendo sensibilmente trasporti e consegne di materie prime e materiali. Quando la situazione è tornata a normalizzarsi, erano andati in affanno supermercati, vendite all’ingrosso e addirittura ospedali. Gli aeroporti erano stati costretti a ridurre il numero dei voli e l’opulenta San Paolo aveva dichiarato lo stato di emergenza: i suoi 12 milioni di abitanti avevano iniziato a trovare difficoltà nel reperire mezzi di sostentamento.
Immediate le ripercussioni economiche: l’Associazione Produttori ha lamentato un mancato guadagno in esportazione di 120 milioni di dollari nel mercato dei polli e ben 170 in quelli dei bovini, in quanto è stato necessario abbattere gli animali per mancanza di cibo.
La protesta che ha paralizzato il Brasile era rivolta al continuo rincaro del diesel (solo a maggio 17 volte), ma le ragioni che hanno motivato uno sciopero così lungo e importante hanno altra sostanza. Ne è prova il fatto che nonostante fossero state accordate diverse concessioni – come la riduzione di 46 centesimi al litro del prezzo del petrolio per 60 giorni (poi procrastinata fino a fine anno) e la diminuzione delle tasse di pedaggio – il dissenso non è diminuito, tutt’altro. Con il trascorrere dei giorni, i soggetti delle manifestazioni si sono moltiplicati: ai camionisti si sono aggiunti i benzinai e, in breve, sono aumentate le manifestazioni nelle piazze da parte dei cittadini contro il governo di Michel Temer che, a pochi mesi dalle elezioni che si terranno il prossimo autunno, gode di scarsa stima.
Temer, che in politica era stato a capo del Partito del Movimento Democratico, aveva sostituito Dilma Rousseff alla Presidenza della Repubblica nell’estate 2016, in seguito all’impeachment dovuto al coinvolgimento di quest’ultima nello scandalo che ha coinvolto proprio la Petrobras. In termini di fiducia l’eredità di Dilma Rousseff, non è mai stata di facile gestione. Del resto, la stessa fibra morale ed etica di Temer è tutt’altro che limpida. Diversi i procedimenti giudiziari in cui è stato coinvolto per corruzione, ostruzione alla giustizia e partecipazione a delinquere: gli ultimi, lo scorso autunno. Dopo la denuncia del procuratore, la Camera negò il rinvio a giudizio e l’attuale Presidente del Brasile scampò il processo: già all’epoca la sinistra brasiliana aveva manifestato contro l’esito della votazione ma, questa, è un’altra storia.
O forse no. Sicuramente è una storia collegata all’attuale situazione perché il Brasile chiede un governo limpido e trasparente, di cui ci si possa fidare e che non affossi, fiscalmente, la popolazione. Una parte dei manifestanti, che alla fine dei conti si è rivelata ridotta, aveva addirittura anelato al ritorno dei colonnelli per un colpo di stato militare. “Vogliamo che qualcuno si faccia carico del Paese”: questa la motivazione che spingeva un’idea così forte come quella di un Governo militare in un Paese che, tra l’altro, per 20 anni ha già vissuto quest’esperienza, e solamente nel secolo scorso. Sia il Ministro di Difesa, nella persona di Silva e Luna, che il Presidente dell’Assocamionisti, De Fonseca, hanno minimizzato ed escluso una possibilità di tal genere.
Intanto, i nuovi prezzi del diesel sono già in vigore. Per sopperire agli oltre 13 bilioni di real che, in previsione, graveranno sul bilancio, il Governo ha già annunciato tagli in diversi settori tra cui Istruzione e Sanità. Fondi ridimensionati anche per diversi programmi sociali destinati alla lotta alla violenza di genere, alle dipendenze ed all’inclusione giovanile. Denaro ricavato dalle tasche dei cittadini.