Cinema: “Lo Hobbit – La desolazione di Smaug”, il fascino degli effetti speciali e un drago diabolicamente ammaliante
Da oggi si torna nella Terra di mezzo con la seconda pellicola della nuova trilogia tolkeniana di Peter Jackson. Tanti gli spunti suggestivi ma anche i “tradimenti” nei confronti del testo originale, non sempre riusciti
di Francesca Romanelli

(fonte immagine: ansa.it)
“La Via prosegue senza fine/Lungi dall’uscio dal quale parte./Ora la Via è fuggita avanti,/Devo inseguirla ad ogni costo”.
Proprio come recita il “Canto della Strada”, una delle tante liriche composte da J.R.R. Tolkien, “Lo Hobbit – La desolazione di Smaug”, secondo capitolo cinematografico della trilogia prequel de “Il Signore degli Anelli”, da oggi nelle sale, ci riporta sulle tracce di Bilbo Baggins nel lungo viaggio verso la Montagna solitaria.
Le vicende della compagnia di Thorin Scudodiquercia riprendono da dove erano state interrotte nella pellicola precedente e i tredici nani, scortati dallo stregone Gandalf il Grigio e accompagnati dallo hobbit, proseguono nella difficile impresa di riconquistare il regno perduto di Erebor, usurpato del drago Smaug.
Peter Jackson ne “La desolazione di Smaug” riconferma il suo ritorno nella Terra di Mezzo all’insegna di stupefacenti effetti speciali, amplificati da una visione 3D particolarmente riuscita per raccontare al meglio i pericoli che si susseguono nel cammino dei protagonisti. Dalla moltitudine, piuttosto realistica e raccapricciante, dei ragni di Bosco Atro, a Beorn, muta-forma in grado di assumere le sembianze di un gigantesco orso, fino agli sciami di orchi di Dol Guldur e alle sale di Erebor, invase dalle ricchezze dei nani e dall’alito di fiamma del drago.
La pellicola, dunque, cambia decisamente stile rispetto all’episodio precedente, come se subisse un’improvvisa accelerazione verso il gran finale, in una corsa incalzante attraverso l’universo tolkeniano, con colpi di scena non sempre aderenti al testo originale. È soprattutto il capitolo dedicato agli elfi silvani, signori di Bosco Atro, quello che rischia di suscitar le ire dei puristi e che, francamente, risulta senza dubbio il meno credibile dell’intera pellicola. Dall’atteggiamento rigido e innaturale di Lee Pace nelle vesti di Thranduil, un sovrano elfico a cui purtroppo manca quella virile eleganza che rende indimenticabile il Re Elrond di Hugo Weaving, alla comparsa di Tauriel, discusso personaggio assente nella versione letteraria che Jackson ha introdotto per dare un tocco “femminile” alla storia.
L’elfa guerriera, capitano della guardia di Thranduil, è interpretata da Evangeline Lilly ma è una figura che appare inevitabilmente priva di colore e spessore e, non riuscendo in nessun modo a catturare davvero lo spettatore, resta un’aggiunta al genio di Tolkien di cui avremmo fatto volentieri a meno. Nello stesso frangente torna sullo schermo anche l’amato Legolas de “Il Signore degli anelli”, altra trasgressione verso il testo originale che però farà contenti i tanti appassionati del principe di Bosco Atro, come sempre taciturno ma riscattato dalla sua abituale destrezza nei combattimenti acrobatici.
Tra le “licenze poetiche” della regia, è invece sicuramente più felice la scelta di approfondire con effetti spettacolari la lotta di Gandalf contro il male, incarnato dal Nemico che vedremo risorgere appieno ne “Il signore degli anelli”. Omessa ne “Lo hobbit” ma descritta nelle appendici della trilogia successiva, questa circostanza permette a Peter Jackson di giocare sapientemente con le ombre della fortezza di Dol Guldur, quasi una novella Barad-dur in rovina, nonché di riportare sullo schermo Sauron stesso, plasmato nell’oscurità fino a richiamare l’immagine che lo rappresenta per eccellenza, l’occhio avvolto dalle fiamme.
Nel proseguire verso il gran finale, sono molte altre le novità che si incontrano, dall’arciere Bard, un affascinante Luke Evans, alla minuziosa ricostruzione di Pontelagolungo, con i suoi ponticelli e le case sul lago, ma da quando si entra nella Montagna Solitaria, il protagonista di colpo diventa uno solo.
Rubando la scena persino all’interpretazione sempre più raffinata di Martin Freeman nei panni di Bilbo, infatti, il drago Smaug cattura per gli ultimi 40 minuti l’attenzione dello spettatore, incontrastato.
Fiammeggiante, malvagio, immenso e straordinariamente affascinante nella sua realizzazione visiva, il terribile Re sotto la Montagna snoda le sue spire su una quantità enorme di oro scintillante, mentre ammicca e dialoga con lo hobbit e con i nani con la sua voce vibrante e profonda. Una vera gioia per gli occhi.
L’avventura di Peter Jackson continua dunque sulla scia di “Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato” e rivisita il capolavoro di Tolkien in maniera decisamente più vivace e “spettacolare” rispetto a quanto era avvenuto per la trilogia cinematografica de “Il signore degli anelli”. Non ne ricalca la fedeltà al testo, né ancor meno ripropone il respiro solenne e quasi sacrale che aveva caratterizzato i tre film precedenti, in favore di una scelta più giocata sugli effetti speciali e sull’azione.
Accettando però queste differenze, e considerando che anche le due opere di Tolkien sono in fondo ben diverse, “Lo Hobbit – La desolazione di Smaug” resta una pellicola godibile e ben fatta. E se qualche purista non apprezzerà le evoluzioni di Tauriel o il sussiego di Thranduil, la maggior parte degli spettatori non potrà che incantarsi di fronte a sua magnificenza Re Smaug, il terribile. Almeno fino al prossimo episodio.
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