Verso la COP30. Il clima è ancora importante?

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La COP30 è alle porte. Si riunirà simbolicamente in Amazzonia, uno dei luoghi del mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici. E uno dei più importanti da preservare se vogliamo affrontare la crisi. Le “parti” coinvolte avranno grande responsabilità per il presente e il futuro della vita sulla Terra.

Dall’11 al 27 novembre 2025 avrà luogo la COP30, la trentesima conferenza delle parti. Qui, i/le rappresentanti di diversi paesi discuteranno le modalità con cui affrontare la crisi climatica. Quest’anno il paese ospitante è il Brasile e la sede della conferenza sarà Belém. Una città simbolica in quanto capitale della regione del Pará, nel cuore della foresta amazzonica.

Prima della COP30, una breve storia delle COP

La storia delle COP ha inizio nel 1991 con il Summit della Terra a Rio de Janeiro, uno dei primi incontri tra le nazioni del mondo per parlare dell’allora ancora nuova problematica dei cambiamenti climatici. In questa occasione venne firmata la UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici). Questo trattato prevede la presenza di un organo decisionale, formato dalle cosiddette “parti”, che hanno l’obbligo di riunirsi ogni anno in quelle che hanno preso il nome di COP, Conferenza delle Parti, appunto.

Una delle COP più importanti è stata la terza, tenutasi a Kyoto nel 1997. Qui si firmò il Protocollo di Kyoto, il primo trattato che vincolava i paesi industrializzati a ridurre le emissioni di gas serra. Il protocollo però entrò in vigore solo nel 2005. Non si può poi non menzionare il 2015, anno della COP21, quando quasi tutti i paesi del mondo firmarono lo storico Accordo di Parigi. Tra gli obiettivi dell’Accordo vi è la limitazione dell’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C, possibilmente sotto agli 1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali.

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I/le leader del mondo alla COP21 di Parigi

Per raggiungere l’obiettivo ogni paese deve presentare ogni cinque anni un NDC (Nationally Determined Contributions), cioè un piano climatico nazionale che indica quanto e come la nazione si impegna a ridurre le proprie emissioni di gas serra e ad adattarsi agli impatti del cambiamento climatico. Purtroppo, per quanto la presentazione degli NDC sia obbligatoria, ogni paese decide in autonomia il suo obiettivo di riduzione delle emissioni, senza una quota imposta “dall’alto”, come avvenne per Kyoto. L’Accordo di Parigi obbliga però alla progressività, per cui gli stati devono diventare più ambiziosi in termini di riduzione delle emissioni ad ogni aggiornamento del piano. Infine, vi è l’obbligo di trasparenza: gli obiettivi devono essere comunicati e presentati pubblicamente e devono essere verificabili.

Il declino delle COP

Purtroppo, con il passare degli anni, le COP hanno iniziato a perdere un po’ di credibilità. La causa? Troppi accordi mutilati o non concretizzati a favore delle lobby di gas e petrolio. Sempre più presenti alle COP, i lobbisti hanno infatti iniziato a sfruttare questi eventi come un’occasione per siglare accordi per loro vantaggiosi e bloccare le iniziative troppo dannose. In più, già dopo la COP26 di Glasgow, era ormai chiaro che l’obiettivo di 1,5 gradi era alquanto lontano, visto lo scarso impegno nella riduzione delle emissioni da parte dei singoli paesi.

La COP27 di Sharm el-Sheikh, in questo senso, ha tirato ulteriormente il freno a mano. Nonostante si sia ribadito l’obiettivo climatico di non superare gli 1,5°, non si è stabilito chiaramente il modo con cui arrivarci, se non la semplice riduzione dell’uso del carbone (e non degli altri dannosissimi combustibili fossili, cioè petrolio e gas).

La COP28 di Dubai

Proprio come Sharm el-Sheikh, anche la COP28 del 2023 ha attirato delle critiche. Infatti, a ospitare la COP era il petrol-stato autoritario degli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi più inquinanti al mondo per emissioni procapite. Un evento così grande e importante può infatti supportare, in modo diretto o indiretto, l’economia di quello stesso Paese. Inoltre, può attrarre la presenza di leader e lobbisti che poco hanno a cuore la transizione ecologica giusta. Infatti, il presidente della Conferenza era Ahmed Al Jaber, capo della Abu Dhabi National Oil Corporation. Una delle sue dichiarazioni è stata: “Non c’è alcuna base scientifica che indichi che è necessario rinunciare ai combustibili fossili per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi”. Alla conferenza erano presenti molti lobbisti delle fonti fossili, che hanno impedito di raggiungere accordi efficaci durante tutta la prima parte della conferenza.

D’altro canto, come ha affermato Stefano Caserini, docente di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano «non è detto che sia un male ospitare la conferenza proprio in quei paesi dove l’economia è basata sui combustibili fossili. Se li escludessero dalle trattative, loro andrebbero avanti per la loro strada. Giocare in casa loro, alla fine, è un modo per metterli con le spalle al muro».

Alla fine a Dubai gli accordi multilaterali hanno avuto la meglio. Per la prima volta, infatti, la maggior parte dei paesi del mondo hanno riconosciuto la necessità di abbandonare totalmente i combustibili fossili. Per questo, si è pensato di tracciare una traiettoria ben precisa entro il 2030 con il Global Stocktake I, di cui parleremo in seguito. Dopodiché, almeno nella teoria, i paesi si sono impegnati a triplicare le fonti di energia rinnovabile e a ridurre le emissioni di metano. Inoltre è stato reso operativo il Fondo Perdita e Danno a favore dei paesi a basso o medio reddito.

La COP di Baku e il cambiamento dell’opinione pubblica

Gli accordi finali di Dubai, però, si sono rivelati in parte un’illusione. Nel 2024 la città scelta per la COP è stata Baku, capitale dell’Azerbaijan, terzo petrol-stato autoritario ospitante la COP. In questa occasione erano presenti più lobbisti dell’industria fossile che delegati politici dei singoli stati. Una delle decisioni finali è stata lo stanziamento di 300 miliardi all’anno per i paesi a basso reddito, contro i 1300 annuali realmente necessari. Inoltre non si è quasi parlato di mitigazione dei danni climatici, né è stata menzionata l’uscita dalle fonti fossili come soluzione alla crisi climatica. Sullo sfondo si stagliava l’ombra dell’annunciato ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca quello stesso mese.

A proposito dell’elezione di Trump, in quel periodo le COP hanno iniziato a perdere di importanza anche nell’opinione pubblica. La prima causa è il cambiamento del vento politico mondiale a favore del conservatorismo di destra. La pandemia ha infierito notevolmente sul distogliere l’attenzione dalla questione climatica, così come la guerra in Ucraina e l’esacerbarsi del genocidio in Palestina. Tutte situazioni con un lungo strascico politico il quale, anche a ragione, ha smorzato la presenza del clima nella narrazione mediatica.

COP30: la concretizzazione dell’Accordo di Parigi

Tra i risultati positivi di Baku troviamo la realizzazione di quanto previsto dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, cioè quello sui registri degli scambi di crediti di carbonio. Si tratta della compravendita di quote di emissioni negative da paesi che non inquinano. In questo modo si dovrebbe mantenere un bilancio globale di emissioni basso senza intaccare le economie dei paesi più inquinanti.

A impedire le trattative erano anche gli Stati Uniti, che volevano regole più morbide. Con l’annuncio dell’uscita degli USA dall’Accordo di Parigi è stato più semplice trovare un’intesa sui registri, che ora sono più rigidi, dettagliati e trasparenti. A Belém si cercherà di trovare delle modalità ancora più efficaci per rendere questo scambio di crediti una strategia efficace e non solo una scappatoia per i paesi inquinanti.

A Baku si è anche raggiunta l’approvazione del primo Global Stocktake, cioè l’obiettivo finanziario internazionale per ridurre le emissioni. Con questo e i registri, tutti i punti dell’accordo di Parigi sono stati realizzati. A Belém, quindi, si tratterà solo di concretizzarlo, a partire dalla riapertura di alcuni tavoli negoziali lasciati in sospeso da Baku. Uno è il “Just Transition“, la “Transizione Giusta”, l’altro è il “Mitigation World Programme“, un programma che stila degli indicatori per il piano di adattamento mondiale alla crisi climatica.

La finanza climatica alla COP30

Nell’agenda di Belém ci sono anche gli ormai tradizionali punti “inaugurali”, anche un po’ provocatori e divisivi, sulle misure commerciali unilaterali e sulla revisione della membership Annex I e Annex II (per semplificare, paesi ricchi e paesi non ricchi). Quest’ultima questione è stata proposta in particolare dalla Federazione Russa. Cambiando il proprio status, infatti, un paese può passare dall’essere un donor a essere un net receiver di aiuti internazionali.

Al di là di chi c’è o non c’è nella lista, la cifra stabilita a Baku di 300 miliardi di dollari entro il 2035 per mitigazione e adattamento non è comunque abbastanza per le necessità reali dei paesi a basso o medio reddito. Sarebbero infatti necessari 900 miliardi all’anno al 2025 per arrivare ai 1000 miliardi al 2030 e ai 1300 miliardi al 2035. Per far sì che i paesi aumentino le risorse stanziate è stata introdotta una road map da Baku a Belém che ha coinvolto una serie di stakeholders, sia interni ai negoziati sia esterni. Alla COP30, quindi, verificheremo se queste cifre sono state aumentate oppure no.

A Belém si dovrebbe negoziare anche su come arrivare a un Global stocktake 2, che si deve basare sull’ultima dicitura del documento finale di Dubai, ovvero il “Transitioning away from fossil fuels”. Nel 2025, però, la maggioranza dei paesi vorrebbe che quella dicitura fosse dimenticata.

Il report sulle NDC alla COP30

Infine, alla COP30 sarà presentato un report molto importante: l’NDC Sintesis Report delle Nazioni Unite. Come dice Jacopo Bencini, presidente di Italian Climate Network, sarà però un report inutile, poiché falsato. Infatti, al suo interno non c’è il nuovo NDC cinese, che è stato presentato soltanto a voce dal Presidente Xi Jin Ping all’Assemblea Generale dell’ONU e comunque non si avvicina neanche minimamente all’obiettivo concreto degli 1,5°. Mancherà anche l’NDC dell’Unione Europea, anch’esso presentato soltanto a voce dalla Presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen all’Assemblea ONU. Anche se Cina e UE presentassero in tempo il loro NDC, lo staff che lavora a quel report verrà licenziato tra il 30 settembre e il 30 ottobre, perciò non faranno in tempo ad aggiornarlo.

In più, nel report del 2025 sarà ancora presente l’NDC degli USA, che però usciranno dall’Accordo dal 2026. Il report sulle NDC più vicino alla realtà sarà quindi stilato soltanto nel 2026. E, in un momento in cui ogni mese è prezioso per contenere quella che potrebbe essere una catastrofe ecologica senza precedenti, non è affatto una buona notizia.

Alla COP30 verranno poi affrontate tutte le altre importanti questioni relative alla crisi climatica: energia; industria e trasporti; foreste, oceani e biodiversità; agricoltura e alimentazione; città, infrastrutture e acqua; sviluppo umano e sociale. Terreno fertile di accordi bilaterali o multilaterali, specialmente su queste ultime tematiche, saranno anche gli incontri al di fuori delle sale negoziali. Infatti, gli accordi non ufficiali possono incentivare alcuni lavori in sala e viceversa.

Quel che resta di USA e UE alla COP30

Forse per la prima volta nella storia delle COP l’Unione Europea e gli Stati Uniti rimarranno fuori dal cerchio della leadership. Se l’abbandono da parte degli USA della lotta alla crisi climatica è stato voluto e annunciato pubblicamente dallo stesso Trump, l’UE aveva promesso ben altre azioni.

Chiara Martinelli, Direttrice di Climate Action Network (CAN) Europe, afferma che l’Unione avrebbe dovuto presentare i nuovi target di emissioni per il 2035 e per il 2040 prima della COP30, ma non l’ha fatto. Non ha rispettato la scadenza ufficiale dello scorso febbraio e quella altrettanto importante dell’assemblea ONU. Qui, il piano di riduzione delle emissioni (meno 60-65% entro il 2035) è stato solamente presentato a voce. Senza contare che, secondo la scienza, una riduzione inferiore al 90% non è da considerarsi un obiettivo davvero ambizioso. «Sarebbe come se uno studente si presentasse alla laurea non con la tesi, ma con un abstract della tesi, nemmeno approvata dal relatore» dice Martinelli.

Sicuramente l’attuale clima politico europeo e mondiale non aiuta, anche perché alcuni paesi dell’Unione stessa non sono d’accordo con l’uscita dalle fonti fossili. Continua Martinelli: «Alcune parti politiche incolpano il Green Deal per la situazione economica dell’Europa e qui a Bruxelles [dove lavora Martinelli, ndr] si percepisce come ci sia la volontà di attuare un piano per cedere alle richieste delle grandi industrie e ritardare l’uscita dai combustibili fossili». 

C’è da dire, conclude Martinelli, che secondo l’Eurobaromentro, più dell’80% dei cittadini e delle cittadine europei chiedono azioni climatiche. Inoltre, le piccole e medie imprese chiedono che si continui nella direzione della decarbonizzazione, anche a fronte degli investimenti già stanziati con il Green Deal. Sicuramente tutto questo verrà discusso durante il Consiglio europeo del 23 ottobre.

Una COP30 a guida BRICS

Di fatto, quest’anno sarà la Cina a dominare su tutti i dossier. «Un paese che non dobbiamo più fare accomodare al tavolo dei negoziati, ma a cui dobbiamo guardare per avere un posto a quel tavolo», dice Bencini. Infatti, le decisioni più importanti riguardo al clima (e non solo) non vengono più solo dal G7, ma anche dai BRICS, di cui fa parte anche il Brasile. Sarà quindi ufficialmente una COP trainata dal sud globale.

A prescindere da chi guiderà i negoziati, questa COP dovrà partorire una cosiddetta cover decision. Una “decisione finale” che dovrebbe essere presa all’unanimità e che di fatto rappresenta il manifesto politico della COP.

Articolo a cura di Iris Andreoni

 

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