La mia prima volta al Salone del Libro di Torino

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La mia impressione del Salone del Libro di Torino, a cui ho partecipato per la prima volta dal 15 al 19 maggio 2025, è stata quella di un grande evento culturale e sociale, che offre sì molte opportunità, ma che nasconde altrettanti lati oscuri, perfettamente in linea con la logica del profitto che domina la nostra società. Vi racconto come è andata.

La corsa agli eventi

Sudata e trafelata, arrivo all’ingresso della “sala granata” nel padiglione 1 del Salone del libro di Torino, a cui ho partecipato quest’anno per la prima volta e che si è tenuto dal 15 al 19 maggio. In coda ci sono cinque o sei persone, l’ingresso è bloccato da un nastro. Lancio uno sguardo all’interno e le sedie sono gremite. La ragazza dell’organizzazione dice la stessa frase che avevo sentito altre volte: “aspetta qui fuori, se qualcuno esce, puoi entrare”. Ma so che non usciranno in molti dall’incontro sulle donne che hanno fatto la storia del giornalismo tenuto da Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale. Lei è magnetica e il pubblico sarà per certo una nicchia di appassionati.

Mi incammino verso il piano B, cioè la presentazione di “Reykjavik, amore” di Guðrún Eva Mínervudóttir (Iperborea, 2025). Si trova nel Piazzale Oval, dall’altra parte della fiera, quindi sono già in ritardo. Correre è impossibile: una fiumana di persone interrompe il mio percorso. Tra scatti e fermate brusche, schivo miracolosamente una sedia a rotelle, spinta da un ragazzo visibilmente irritato. Prendo un’uscita laterale per percorrere una strada più lunga ma più libera. Decine di persone pranzano sedute sull’asfalto rovente o sui pochi tavolini a disposizione. Per fortuna sono un po’ schiacciate ai lati e non mi intralciano. Le guardo di sfuggita mentre corro: azzannano il loro panini freddi e stopposi. Ok, non so se siano stopposi, ma proietto su di loro la mia secchezza delle fauci. Sto cercando di bere il meno possibile, per andare in bagno il meno possibile ed evitare le lunghe code e condizioni igieniche precarie, inevitabili in una fiera così frequentata.

L’evento mancato

Al Padiglione Oval non trovo la sala bianca. Mi rendo conto che “Padiglione Oval” è diverso da “Piazzale Oval”. Torno indietro, con altrettanta difficoltà. Trovo la sala bianca e mi ci fiondo. Ci sono dei posti liberi tra le ultime file. I primi minuti fatico ad ascoltare, ho il fiatone e cerco di organizzarmi con taccuino, penna, telecamera, cellulare, borsa, tutto in equilibrio precario sulle gambe. L’incontro è abbastanza interessante, ma realizzo di aver un po’ idealizzato il titolo del libro per il mio attaccamento all’Islanda, dove ho vissuto. Dannate emozioni. Annalisa Camilli mi avrebbe lasciato di più, forse avrei dovuto insistere.

Gli aspetti positivi del Salone del Libro di Torino

Quel terzo giorno di salone, il sabato, è stato il peggiore. Alla fine della giornata, ho avuto la conferma di due pensieri che si facevano largo nella mia mente già dal giovedì. Il primo: sarei dovuta stare più attenta durante le lezioni di orienteering alle medie. Lo ammetto, una buona parte di responsabilità la per la mia esperienza negativa al Salone la attribuisco alle mie scarse competenze pratiche. Il secondo: i grandi eventi sono molto problematici e generalmente non offrono un’esperienza totalmente positiva a chi partecipa. Se del mio essere tra le nuvole dovrò parlarne con una psicologa, qui mi dedicherò al secondo aspetto.

Per non essere additata di faziosità, inizio dai lati positivi del Salone. Tante, tantissime case editrici hanno potuto esporre i loro progetti editoriali a migliaia di persone. Percepire la loro dedizione a questo lavoro è stato entusiasmante, così come vedere che le persone acquistavano i loro libri. Sono stata poi piacevolmente colpita dal grande spazio dedicato a fumetti e graphic novel, generi che per anni sono stati relegati ai margini dell’editoria. Per non parlare degli spazi per l’infanzia, che mi sono sembrati grandi, ben forniti, con attività ludiche e creative.

Incontri interessanti e illuminanti

Gli incontri e le conferenze, che ho comunque selezionato con cura, sono stati molto interessanti se non illuminanti, pochissime volte dimenticabili o superficiali. Sicuramente questo è stato possibile anche grazie alla presenza di persone celebri, che hanno scritto libri di grande spessore e che diffondono con competenza e passione la cultura nel nostro paese. Finanziamenti esterni, sponsor, partner commerciali e costo dei biglietti concorrevano a rendere possibile tutto questo, e di più.

Grazie alle ingenti risorse, i grandi spazi della fiera e i giorni che occupava vi era posto anche per persone meno conosciute, perché di nicchia, perché poco inclini a farsi pubblicità o perché parte di minoranze marginalizzate. Ho apprezzato, di conseguenza, l’eterogeneità delle tematiche affrontate, che mi hanno permesso di approfondire diverse mie passioni, come ambiente, giornalismo, narrativa e poesia. Ho potuto anche conoscere autori, autrici e temi nuovi, per esempio un processo alle streghe avvenuto in Trentino nel ‘500. In certi momenti ho provato una sensazione ben descritta da una signora che parlava al telefono con un amico dopo una conferenza: “Ho appena avuto un orgasmo ideologico!

Il caro prezzo della cultura

Mi sono anche chiesta, però, se questi picchi di goduria non derivassero dal contrasto con il disagio costante che si viveva tra un incontro e l’altro. E, anche se si fosse trattato di genuini momenti di soddisfazione, se ne valesse la pena. La mia risposta è no. Almeno, non se ci fosse la possibilità di creare un’alternativa. È infatti importante che la cultura, le idee, le opinioni, la politica, gli incontri costruttivi tra persone continuino ad avere uno spazio nella nostra società, ma è altrettanto importante che tutto questo non debba comportare un prezzo così alto da pagare.

Il prezzo lo ha pagato, per esempio, la casa editrice “Readerforblind” che, poco prima dell’inizio del Salone, ha rinunciato a parteciparvi a causa delle gravi carenze organizzative. In effetti, un’altra piccola casa editrice indipendente con cui ho parlato mi ha rivelato che, in fase di organizzazione, non esiste un vero e proprio rapporto personale con “il Salone” e che è tutto molto standardizzato. Questo, certo, può rendere le cose efficienti. Ma, se nessuno ci mette la faccia, nel momento in cui incorrono dei problemi è molto facile sfilarsi dalla responsabilità di risolverli.

Gli spazi del Salone del libro di Torino

Inoltre, lo spazio teoricamente garantito alle case editrici è tanto più grande e visibile quanto più si è disposti a pagare. Ho chiesto a un ragazzo di uno degli stand più piccoli quanto avessero pagato. Per pochi metri quadri, con un solo lato aperto e poche grafiche pubblicitarie hanno speso 1800 euro. Ogni cartello o gadget avrebbe aumentato il prezzo dell’affitto. Per coprire queste spese alcune case editrici hanno condiviso lo spazio, riducendo notevolmente la quantità di libri da mostrare.

In più, chi rimane, letteralmente, ai margini del salone, è facilmente oscurato dai grandi gruppi editoriali i quali, avendo maggiore capacità di acquisto, erano posizionati al centro dei padiglioni, con quattro aperture, grandi insegne e tanto personale.

Non solo libri: eventi, cibo e bibite.

Anche per quanto riguarda i panel ho riscontrato non pochi problemi. Per esempio, l’incontro con Takoua Ben Mohammed, graphic journalist italo-tunisina, si è tenuto in una sala adibita al disegno per bambini, con un pessimo sistema di audio, senza un facilitatore o facilitatrice. Fabio Pusterla, poeta edito da Marcos y Marcos, ha dovuto leggere le sue poesie con il brusio di sottofondo delle centinaia di persone che passavano accanto allo spazio aperto, unito a della musica hip hop proveniente da un’altra sala. E poi le lunghissime code e la difficoltà di prenotazione per le grandi celebrità della cultura, dello spettacolo e dei social, ma anche per eventi e personalità più piccole, che si tenevano in spazi con pochi posti. L’ultimo giorno ho assistito a un evento in un auditorium del centro congressi, che però era talmente formalizzato che chi doveva intervenire ha risposto alle domande leggendo un foglio di carta pre-scritto. Molto difficile da seguire, con poco contatto con il pubblico e pochissima passione nel trasmettere i concetti.

salone del libro di torino

La lunga coda per il pranzo allo stand dell’Esselunga

Il tutto era condito dai prezzi alti di cibo e bibite, come sempre all’interno di una fiera. A parte l’acqua, che in tutti i bar e ristoranti costava un euro e vi era anche la possibilità di riempire la borraccia da rubinetti gratuiti, anche se pochi e non ben segnalati. Se si conta l’ingresso giornaliero di 15 euro, gli acquisti di libri, le pause cibo e caffè, i mezzi di trasporto, si raggiungevano facilmente i cinquanta euro al giorno a persona. Anche se, bisogna dirlo, chi aveva un biglietto del salone poteva riscattare un buono sconto di dieci euro per i mezzi.

I numeri del Salone del Libro di Torino?

Infine, l’aspetto più problematico è stata la quantità di persone presenti: 231mila ingressi totali, 10mila in più rispetto all’anno precedente. Problematico, non necessariamente negativo, poiché, ripeto, l’alta partecipazione a un evento culturale può essere una bella cosa. Questo inseguimento dei numeri, però, può a lungo andare rendere l’esperienza poco godibile. Come accennavo all’inizio, a parte nella giornata di lunedì, muoversi con tranquillità nei padiglioni e comunicare efficacemente con editori ed editrici era molto difficile, così come partecipare agli eventi qualora fossero vicini nell’orario e lontani nello spazio. Era complicato anche prendere da mangiare e da bere e andare in bagno, nonostante quest’anno ci fossero, mi è stato detto, più bagni dell’anno scorso.

Le molte persone sono accorse anche per i tanti eventi e i tanti stand delle case editrici. Sul sito vi è una sezione dedicata solamente ai “numeri” del salone, messi in mostra come grande vanto: 2.647 eventi, 997 espositori, 137mila metri quadrati occupati. Questa “bulimia” di occasioni, però, può creare o alimentare la sensazione di ansia del perdersi qualcosa, precludendosi l’apprezzamento del momento presente per pensare a quanto, forse, sarebbe stata migliore l’alternativa. Un’alternativa che si è comunque propensi a non scegliere poiché, davanti alla necessità di selezionare, si tende ad andare “sul sicuro”, affinché le fatiche e i prezzi di cui abbiamo parlato valgano la pena. Questo crea il paradosso della passività di fronte ai troppi stimoli nuovi.

Per non parlare della velocità degli incontri, che dovevano lasciare puntualmente il posto a quelli successivi. Capitava spesso che chi parlava si interrompesse poiché scorgeva il cartello con scritto “cinque minuti rimasti”. Per esempio, durante un incontro importante sulla rappresentazione dei gruppi marginalizzati, un relatore non è riuscito nemmeno a iniziare il suo intervento. Nessuno spazio alle domande, alle riflessioni, alla condivisione.

Come si misura il successo di un evento?

Tutto un po’ in contrasto, quindi, con ciò di cui si parlava all’interno di questi incontri: la fruizione lenta dei contenuti, le connessioni profonde tra gli esseri umani, la sostenibilità ambientale e l’ecologia, la lotta al bombardamento di informazioni, alle uscite veloci di libri, alla società della performance, alla sempre maggiore ansia di giornate che non si riescono ad afferrare. In certi momenti mi è sembrato che il Salone del libro di Torino rispecchiasse esattamente quella realtà da cui, con la lettura, si vorrebbe scappare.

Se quindi questi grandi numeri sono stati dichiarati un successo, dobbiamo ricordarci di ciò che ha scritto Alan MacDonald, giornalista del Guardian, in un vecchio articolo sulle rinnovabili: il successo di qualcosa non andrebbe misurato in termini di persone raggiunte, ma da quelle lasciate indietro.

Le grandi aziende al Salone del Libro di Torino

La logica del profitto, da cui nemmeno il salone del libro è esente, calcola invece soltanto la crescita infinita, a prescindere dal prezzo (non monetario) che si paga per raggiungerla. Non a caso, tra i partner del Salone troviamo grandissime aziende o multinazionali a scopo di lucro, come Lavazza ed Esselunga, che avevano i loro stand di cibo e bibite, ma anche Intesa San Paolo e Reale Mutua.

Non se e quanto abbiano direttamente guadagnato da questo evento. Sicuramente, però, lo scopo della loro presenza era anche l’accostamento del loro nome a realtà considerate virtuose, come il Salone e, quindi, la cultura, ma anche ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), il cui logo marchiava molti eventi del Salone. ASVIS, però, ha ricevuto molte critiche per le sua ambiguità. Per esempio la presenza al Festival dello Sviluppo Sostenibile, organizzato appunto da ASVIS, del ministro Francesco Lollobrigida, una figura solitamente ostile alle cause ambientali. Inoltre, partner e sponsor di ASVIS sono, ancora una volta, grandi aziende con un forte impatto ambientale e sociale, come Lavazza, Costa Crociere, Amazon e Kasanova. Qui, però, dovremmo varcare le porte dei torbidi labirinti del greenwashing, perciò faccio un passo indietro, e mi limito a quello che definirei “bookwashing”.

Il “bookwashing” del Salone del Libro di Torino

Una bella copertina, anche dei bei contenuti, che funzionano però solo grazie a una grande macchina insostenibile, gerarchica, frenetica, che punta all’accumulo di denaro e non al benessere. Il quale, se presente, è un contentino per illuderci che sia tutto giusto, quando invece si è dovuto sgomitare, perdere tempo, pagare molti soldi per trovare la pur esistente umanità. Una macchina, insomma, che rispecchia l’intera nostra società.

Vista la mole di persone e delle difficoltà che questo ha comportato, qualcuno ha proposto di fare durare la fiera un giorno in più. La crescita come risposta al problema della crescita. Un’assoluta contraddizione che si nutre di illusione. La soluzione, invece, sarebbe ridurre, almeno un po’: meno incontri, meno celebrità, meno giorni, meno marketing, meno guadagni economici, più in termini di esperienza vissuta.

Salone del Libro o negozio di vestiti?

Mentre ero in coda alla cassa del Libraccio, ho pensato a quando, più di dieci anni fa, lavoravo come commessa in un noto negozio di vestiti, in centro a Milano. La strategia era quella di impedire alle persone di fermarsi a pensare o di parlare con chi le accompagnava. Venivano distratte con domande superficiali, inebriate con un profumo intenso e la musica altissima. Veniva loro impedito di andare verso l’uscita, grazie alle luci soffuse e a percorsi obbligati. Veniva ostentato il sovraffollamento del negozio, reale o fittizio, con code ben architettate all’entrata, alle casse, davanti agli scaffali, per creare fretta e impedire il pensiero, innalzare le aspettative e affamare le persone di competitività nell’acquisto. Il Salone di Torino, in certi momenti, mi è sembrato questo. Se, quindi, una delle fiere del libro più importanti d’Italia somiglia all’esperienza di un negozio commerciale di vestiti, mi chiedo se la battaglia sociale e culturale che si dice di voler combattere con questo evento non sia stata già persa.

Articolo a cura di Iris Andreoni

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