“Perché il fiume cancelli tutto”, una nuova voce per una storia antica
Le Commari edizioni proseguono il loro progetto portando in Italia il romanzo d’esordio dell’argentina Claudia Chamudis.
Sono passati più di cinquecento anni da quando Cristoforo Colombo decise di seguire un’intuizione, cercare una nuova rotta per le Indie finendo invece per imbattersi in un continente di cui gli europei fino ad allora ignoravano l’esistenza ma che era sempre stato lì. Quel 12 ottobre di tanto tempo fa determinò, da qualunque parte lo si guardi, un prima e dopo: per chi metteva piede per la prima volta su quelle terre e per chi ci aveva sempre vissuto.
E oggi, a secoli di distanza, siamo ancora qui a confrontarci con una storia di colonizzazione e con le sue implicazioni.
Prova ne è, da una parte, il dibattito ancora acceso soprattutto in alcuni paesi centro e sudamericani e il confronto con la Spagna (o meglio la richiesta di un confronto) e, dall’altra, il fatto che nel corso degli anni, a seconda dei governi e della prospettiva, persino il nome di questa ricorrenza è cambiato più volte.
Il punto di vista è centrale in questo dibattito. Nel tempo è stato prevalente quello dell’uomo bianco europeo: pensiamo alle definizioni, ormai fortunatamente abbastanza antiquate, di Nuovo Mondo, Terzo Mondo e affini, o alla dicotomia che ha visto lungamente contrapposte la civilizzazione, associata al progresso industriale, e la barbarie, associata ai nativi e alla natura. Sempre più, però, si sta facendo largo il punto di vista delle popolazioni originarie o indigene (senza dimenticare la complessità che deriva dal fatto che ognuno dei popoli così definiti ha la propria storia, la propria cultura, le proprie tradizioni, una ricchezza che talvolta si perde nell’adozione di un termine unico per raccoglierle tutte).
E proprio il punto di vista è ciò che più caratterizza Perché il fiume cancelli tutto, romanzo d’esordio dell’argentina Claudia Chamudis, portato in Italia dalla casa editrice Le Commari.
Seppur ispirato alle memorie del gesuita Florian Pauke, l’autrice sceglie una narrazione in terza persona che ha gli occhi di Iyatäé, una giovane donna della tribù indigena Mocovì.
Il romanzo si apre pochi giorni prima che la tribù si sposti per seguire il ciclo delle stagioni. A qualche giorno di cammino dal nuovo insediamento, c’è una missione diretta da un uomo bianco e una piccola delegazione decide di recarvisi per capire di cosa si tratta. Al ritorno il capotribù e alcuni uomini decidono di unirsi alla missione, creando una prima frattura tra chi vuole andare e chi vuole restare. Gli uomini, inoltre, possono portare con sé solo una moglie: Iyatäé, in attesa di un figlio, viene preferita all’altra moglie che rimane al villaggio con gli altri figli di Nadel.
Una volta raggiunta la missione, uomini e donne dovranno allontanarsi dal proprio modo di vivere, diventare stanziali, domare la terra e gli animali, pregare un solo dio, amare una sola donna.
Attraverso scene di vita quotidiana, assistiamo così, nell’incontro tra una tribù e un gesuita, alla storia di una colonizzazione, che non ha bisogno di guerre o battaglie per essere violenta.
La prospettiva scelta dall’autrice favorisce un effetto straniante.
Iyatäé non riesce a comprendere quel dio che ha l’aspetto di un uomo emaciato e sofferente inchiodato ad una croce.
Non capisce perché debba prendere un altro nome con il battesimo.
Dicono che adesso il suo nome è Dolores. Un nome di sofferenza, che non ha niente a che vedere con quello che la designa da quando è nata: Iyatäé è la stella centrale delle tre vecchie, quella che indica l’inizio dell’estate e il tempo del verde che torna. Ogni notte sua madre additava il cielo e le mostrava, come se fosse un riflesso nell’acqua, la luce lontana della sua controparte celeste. La cerca ancora, ogni notte, per sentirsi protetta.
Non comprende la prepotenza dell’uomo bianco che, invece di vivere in armonia con la natura e prendere ciò che essa generosamente offre, preferisce piegarla, costringere la terra ai propri ritmi, pretendere che il fiume rimanga negli argini, uccidere crudelmente animali solo perché indomabili.
Rimane forte e viscerale il rapporto di Iyatäé con la terra e il fiume, con la natura, il suo ritmo e la sua voce. La scrittura, essenziale ed evocativa, diventa allora immagini e odori, sensazioni tattili, silenzi e musica.
La natura stessa entra nel racconto a chiosa e chiusura di ogni capitolo: una voce in prima persona plurale, un noi che ricomprende in un unicum tutti gli esseri viventi.
Nello scegliere la voce di un’indigena, l’autrice sceglie la voce di una donna, non quella di un uomo. Iyatäé è un personaggio che non solo in quanto indigena subisce la colonizzazione, ma in quanto donna è soggetta alle decisioni del marito Nadel.
Nonostante questo, la sua volontà nel corso del romanzo si rivela fortissima e molte delle azioni di questa giovane donna possono essere lette come espressione del proprio diritto all’autodeterminazione. Alla fine Iyatäé sceglierà la propria strada in un finale in qualche modo aperto e incerto, che non fa però così paura.
Recensione a cura di @vivileggiama
Perché il fiume cancelli tutto
di Claudia Chamudis
Traduzione di Ilaria Magnani
Le Commari edizioni, 2024
pp.134, 16 euro