La vita di Adele
È uscito finalmente anche nelle sale italiane il film vincitore della Palma d’Oro di Cannes 2013. Tratto dal fumetto “Le bleu est une couleur chaude”, il regista Kechiche narra l’arco di vita di otto anni di Adele e del suo primo amore, omosessuale
di Giulia Marras
La vita di Adele è il quinto lungometraggio di Adbellatif Kechiche, conosciuto ai più per Cous Cous, Leone d’Argento a Venezia nel 2007. La vita di Adele ha invece vinto la Palma d’Oro a Cannes, e anche il premio per le due attrici protagoniste, prima volta in cui la vittoria viene spartita tra due scelte. Da quel momento sono nati dibattiti – in Francia era un momento alquanto particolare per lo stato delle coppie omosessuali – per l’assegnazione di un premio di scelta politica, o per la visione eterosessuale e maschilista del regista verso una coppia omosessuale e il sesso lesbico.
Nonostante effettivamente le scene di sesso siano insistentemente lunghe e permeino con loro forza tutta la pellicola, La Vita di Adele è ben altro.
Tratto dal fumetto di Julie Maroh, “Le bleu est une couleur chaude”, il film del regista tunisino naturalizzato francese riprende dalla grafica fumettistica la concentrazione sui volti e sui dettagli, costruendo la storia tramite l’utilizzo massiccio dei primi piani. Siamo a Lione, ma non ce ne accorgiamo. Ci ritroviamo invece dentro Adele: Adele che dorme, Adele che sogna, Adele che mangia, Adele che piange, Adele che implora.
Oltre che fare tanto l’amore, in questo film si mangia. Quasi sempre. Il cibo diventa simbolo di lussuria – l’ostrica è metafora dell’organo sessuale femminile, che prima non piace ad Adele, poi si -, di estrazione sociale, fondamentale la differenza tra la famiglia di Adele e quella di Emma. A mangiare ci si sporca, come a fare l’amore. E Kechiche non vuole farcelo dimenticare: le bocche si sporcano di sugo costantemente, e sebbene a volte possa sembrare un realismo un po’ forzato, è una caratteristica quasi perturbante che che rimane impressa nello spettatore, anche dopo la visione, proprio per la sua esagerazione.
Ma nell’esplorazione del corpo non ci sono solo bocche, sebbene le più importanti: Adele e la sua bocca socchiusa mentre dorme, Adele che “mangia” il suo amore, tenta di afferrarlo e inghiottirlo per non perderlo (la mano di Emma). Nell’esaltazione dei volti e della pelle, infatti, vengono a galla tutti i difetti e nuovi particolari ad ogni inquadratura: le bolle sulla mano di Adele, le lacrime copiose, il naso grondante, la cellulite.
C’è molta fisicità dunque, ma anche molto intimismo. Si entra appunto “dentro” Adele, e ci si immedesima: nella difficile crescita dall’adolescenza, nell’accettazione di sé fino alla maturazione, che rimane comunque sempre molto appannata. Adele fragile davanti alle compagne di scuola, davanti ai genitori di Emma, fragile davanti agli amici di Emma. Adele ingenua, nei bar gay, nel mondo altezzoso dell’arte e della cultura, nel tradimento. Adele sicura, del tuo amore, del tuo corpo, del tuo lavoro. Adele, che a differenza di Emma, non deve trovarsi per forza una velleità artistica per sfogare le sue insicurezze, e, come solo pochi ragazzi di oggi, è convinta di voler fare la maestra per tutta la vita.
La Vita di Adele è il suo personale periodo blu. Come quello di Picasso, non a caso l’unico pittore che ammette ad Emma di conoscere, non a caso, primo suo amore dai capelli blu. Le tre ore del film (che scorrono via come un pianto, o una risata) sono i primi capitoli della sua vita (ancora, non a caso, il titolo intero è La vita di Adele – Capitoli I e II), sofferti e goduti, reali nella loro semplicità. Non ci sono mai emozioni ambigue, come non c’è mai in Adele un trattenersi della propria sincerità e umiltà, e per questo si deve ringraziare l’interpretazione della giovane e genuina Adèle Exarchopoulos.
Forse La vita di Adele non è un capolavoro, ma è l’esperienza di una vita tra tante, narrata attraverso il più caldo dei colori, il blu, e il più caldo dei sentimenti, l’amore.